L'uomo, ancora un ragazzo, un manovale di opificio di una città del nord, era semplicemente fuggito e aveva avuto la fortuna di imbattersi in persone che l'avrebbero salvato dalla morte o dai campi di lavoro. Aveva sedici anni, era ignorante, chiassoso, ribelle, di buon cuore. Diventò il beniamino di tutti, come un cucciolo. Io ero molto ricercata perché conoscevo la storia di Yeowe e così, con l'aiuto di un uomo che sapeva entrambe le nostre lingue, ebbi modo di raccontare a quelli del Bambur qualcosa sul luogo verso cui erano diretti: i secoli di schiavitù sotto le Corporazioni, Nadami, la Guerra, la Liberazione. Alcuni di loro erano degli affittati provenienti dalle città, poi c'era un gruppo di schiavi delle tenute, comprati a un'asta dall'Hame con denaro falso e sotto falso nome e imbarcati in fretta su questo volo. Nessuno di loro sapeva dove stava andando. Era stato appunto questo trucco a richiamare l'attenzione del Voe Deo su questo volo.
Giogo, il ragazzo dell'opificio, rimuginava senza sosta su come gli Yeowiani ci avrebbero dato il benvenuto. Si era costruito tutt'una scena, fra lo scherzo e il sogno, con bande che suonavano, discorsi e un gran cenone apparecchiato per noi. Il cenone si accresceva di nuove prelibatezze via via che i giorni passavano. Furono giorni lunghi, di fame, di fluttuazione nello spazio indistinto dello scompartimento-merci, segnati solo dall'alternarsi, ogni dodici ore, di luci più forti e più fioche, e dalla distribuzione di due pasti durante il "giorno", cibo e acqua in tubi da spremere dentro la bocca. Non pensavo molto a quel che ci aspettava. Mi trovavo nel mezzo fra due eventi. Se le navi da guerra ci avessero trovato, sarebbe stata probabilmente la morte. Se fossimo arrivati su Yeowe sarebbe stata una nuova vita. Per il momento eravamo tra color che stan sospesi.
La nave atterrò felicemente allo spazioporto di Yeowe. Scaricarono prima le casse di macchinari, e poi l'altro carico. Uscimmo fuori barcollando e appoggiandoci gli uni agli altri, incapaci di reggere alla gravità del nuovo mondo che ci attirava verso il suo centro, accecati dalla luce di un sole molto più vicino di quello al quale eravamo abituati.
«Per di qua! Per di qua!» gridò un uomo. Provai sollievo nel sentire la mia lingua, mentre quelli del Bambur provarono inquietudine.
«Per di qua! Per di qua! Spogliatevi! Aspettate!» Al nostro primo impatto col Mondo Libero non sentivamo che ordini. Dovevamo essere decontaminati, procedura dolorosa ed estenuante. Fummo esaminati da dottori. Tutto quello che avevamo portato con noi doveva essere decontaminato, esaminato e registrato. Non ci volle molto per me. Avevo solo gli abiti che indossavo, e che portavo ormai da due settimane. Fui ben lieta di essere decontaminata. Alla fine ci ordinarono di metterci in fila in uno dei capannoni vuoti. Sulle porte si poteva ancora leggere la sigla C.P.A.Y.: Corporazione delle Piantagioni Agricole di Yeowe. A uno a uno fummo sottoposti a un colloquio d'ammissione. L'uomo che mi interrogò era basso, bianco, di mezz'età, con gli occhiali, come un qualsiasi impiegato-schiavo della Città, ma lo guardai con soggezione. Era il primo Yeowiano con cui parlavo. Mi fece delle domande da un formulario e lo compilò con le mie risposte. «Sai leggere?» «Sì.» «Capacità?» Esitai un attimo e risposi, «L'insegnamento. Posso insegnare lettura e storia». Non mi guardò neanche in faccia.
Sopportai di buon grado. Dopo tutto, gli Yeowiani non ci avevano invitato a venire. Ci ammettevano solo perché sapevano che se ci avessero respinto saremmo andati incontro a una morte atroce in una pubblica piazza. Eravamo un profittevole carico di merce per il Bambur, ma per Yeowe non eravamo che un problema. Comunque molti di noi avevano capacità che potevano tornare loro utili, e fui lieta che ci interrogassero in proposito.
Dopo aver superato il colloquio fummo separati in due gruppi: uomini e donne. Giogo mi abbracciò e si diresse dalla parte degli uomini ridendo e mandando saluti. Io stavo con le donne. Guardammo tutti gli uomini mentre venivano portati via sulla navetta diretta alla Vecchia Capitale. A quel punto la mia pazienza stava venendo meno e la mia speranza si spegneva. Pregai, «Signore Iddio Kamye, non qui, non anche qui!» La paura mi rese furiosa. Quando un uomo venne a impartirci di nuovo ordini del tipo «Su, forza, da questa parte!» gli andai incontro e gli dissi, «Chi sei tu? Dove stiamo andando? Siamo donne libere!»
Era un uomo alto con una faccia bianca e tonda e gli occhi azzurri. Abbassò lo sguardo su di me, dapprima seccato, poi sorridente. «Sì, sorellina, sei libera,» disse «ma tutti dobbiamo lavorare, no? Voi signore siete in partenza per il sud. C'è bisogno di gente nelle piantagioni di riso. Avrete il vostro lavoretto, guadagnerete i vostri soldini, vi guarderete un po' attorno, giusto? Se poi non vi piacerà laggiù, tornate pure indietro. Possiamo sempre far buon uso di graziose signore da queste parti.»
Non avevo mai sentito l'accento delle campagne di Yeowe: un brusio cantilenante, indistinto, con vocali lunghe e aperte. Non avevo mai sentito delle serve essere chiamate signore. Nessuno mi aveva mai chiamato "sorellina". Senza dubbio lui non dava alla parola "uso" il senso che gli davo io. Voleva solo essere amichevole. Io ero spiazzata e non aggiunsi altro. Ma la chimica, Tualtak, disse, «Sta' a sentire, io non sono una bracciante dei campi, sono un'esperta scienziata…»
«Oh, siete tutti scienziati,» l'interruppe lo Yeowiano col suo largo sorriso. «Forza, andiamo, signore!» Si incamminò, e noi lo seguimmo. Tualtak continuava a parlare. Lui sorrideva senza darle retta.
Fummo portate a un vagone ferroviario che attendeva su un binario morto. Il grande sole luminoso stava tramontando. Il cielo era tutto arancio e rosa, pieno di luce. Ombre lunghe e nere si disegnavano per terra. L'aria tiepida era densa di polvere e di odori. Mentre eravamo in attesa di salire sul vagone mi chinai per raccogliere da terra un sasso rossastro. Era rotondo, attraversato da una sottile venatura bianca. Era un pezzo di Yeowe. Tenevo Yeowe tra le mani. Anche quel sassolino lo conservo ancora.
Il nostro vagone fu trasferito su uno dei binari principali per essere agganciato a un treno. Quando il treno partì ci fu servita la cena: minestra da grandi pentole trasportate su rotelle attraverso il vagone, ciotole di dolce, denso riso di palude, e ananas. Un lusso su Werel, molto comune qui. Mangiammo a sazietà. Guardai le ultime luci svanire dagli alti colli ondulati che il treno stava attraversando. Spuntarono le stelle. Ma niente lune. Non le avrei più viste. In compenso vidi Werel che sorgeva a oriente. Era un astro di colore verdemare, che sembrava Yeowe visto da Werel. Ma non si può vedere Yeowe sorgere dopo il tramonto. Yeowe va dietro al sole.
Sono viva e sono qui, pensai. Anch'io vado dietro al sole. Dimenticai tutto il resto e mi addormentai, cullata dal dondolio del treno.
Il secondo giorno fummo fatte scendere dal treno in una città lungo il grande fiume Yot. Il nostro gruppo di ventitré donne fu smembrato, e dieci di noi furono portate su un carro di buoi fino a un villaggio, Hagayot. Era stato un insediamento della CPAY dedito alla coltivazione del riso di palude per il nutrimento degli schiavi. Ora era un villaggio-cooperativa, e coltivava riso di palude per il Popolo Libero. Fummo assunte come membri della cooperativa. Andammo avanti dividendo tutto con gli altri del villaggio finché non fu giorno di paga e potemmo restituire il dovuto alla cooperativa.
Era un modo ragionevole di sistemare gli immigranti privi di mezzi, di conoscenza della lingua o di qualifiche. Ma non capivo perché non avessero tenuto conto delle nostre qualifiche. Perché avevano mandato in città invece che qui gli uomini delle piantagioni del Bambur, che facevano i braccianti dei campi? Perché solo noi donne?