Dopo una breve pausa lui mi rassicurò, «Te li farò spedire con la nostra prossima nave. Vorrei tanto farti imbarcare direttamente per Yeowe,» aggiunse abbassando la voce, «ma purtroppo l'Ekumene non può offrire passaggi a schiavi fuggiaschi…»
Mi girai, gli afferrai la mano e vi poggiai per un attimo la fronte. Credo sia stata l'unica volta in vita mia che ho fatto quel gesto di mia libera iniziativa.
Rimase esterrefatto. «Andiamo, andiamo,» disse, facendomi fretta.
L'ambasciata aveva al suo servizio delle guardie wereliane, per la maggior parte veot, uomini dell'antica casta guerriera. Uno di loro, un tipo serio, cortese, molto taciturno, mi scortò fino all'aereo per il Bambur, l'isola-reame a est del Grande Continente. Aveva con sé tutti i documenti che mi servivano. Dall'aeroporto mi condusse al Reale Osservatorio Spaziale, fatto costruire dal re per la sua astronave. Da lì senza indugio fui fatta salire a bordo della nave, che si trovava sulla sua imponente piattaforma, pronta alla partenza.
Immagino che sul davanti avessero allestito confortevoli appartamenti per il re quando compì la sua unica crociera per i satelliti. Il corpo della nave, che era appartenuta alla Corporazione delle Piantagioni Agricole, era ancora formato da grandi scomparti per il trasporto dei prodotti della colonia. Avrebbe trasportato grano da Yeowe nelle prime quattro stive, che adesso erano piene di macchinari agricoli fabbricati nel Bambur. Il quinto scomparto era carico di schiavi.
La stiva era sprovvista di sedili. Avevano steso degli strati di feltro sul pavimento. Noi ci sdraiammo sopra e fummo allacciati a delle barre di sostegno come fossimo colli di merce. C'erano circa cinquanta "scienziati". Fui l'ultima a salire a bordo e a essere allacciata. Il personale di bordo era indaffarato e parlava solo la lingua del Bambur. Non riuscii a capire le istruzioni che ci venivano impartite. Avevo un bisogno impellente di scaricarmi la vescica, ma quelli avevano gridato, «Presto! Presto!» Così rimasi distesa a soffrire mentre chiudevano le grandi porte dello scompartimento, che mi fecero pensare ai cancelli del complesso di Shomeke. Gli altri intorno a me si chiamavano l'un l'altro nella loro lingua. Un bambino piangeva. Quello sì che era un linguaggio che conoscevo. Poi partì il grande rombo sotto di noi. Gradualmente sentii il mio corpo appiattirsi contro il pavimento, come se un enorme piede cedevole mi stesse camminando sopra, finché le mie scapole sembrarono affondare nel feltro, e la lingua mi si compresse dentro la gola come per soffocarmi, e con un'intensa fitta di dolore la vescica lasciò andare l'urina.
Poi cominciammo a trovarci in assenza di peso, a levitare fra i nostri legacci. Il giù era su e il su era giù e non c'era più alcuna direzione. Sentii la gente intorno a me darsi sulla voce, chiamarsi per nome, chiedersi cosa stesse succedendo. «Stai bene?» «Io sì, tutto a posto!» Il bambino non aveva mai cessato i suoi potenti strilli acuti. Cominciai a sentire il fastidio dei miei lacci, vedendo la donna che mi stava accanto strofinarsi le braccia e il petto nei punti in cui era stata legata. Ma una voce spezzata e confusa tuonò dall'altoparlante, impartendo ordini prima in lingua del Bambur e poi del Voe Deo. «Non slacciate le cinture! Non vi muovete da dove siete! La nave è sotto attacco. La situazione è molto critica!»
Così rimasi distesa a fluttuare nella mia piccola nube di urina, ascoltando parlare gli stranieri intorno a me senza capire nulla. Mi sentivo in uno stato pietoso, ma impavida come non lo ero mai stata. Ero spensierata. Come quando uno muore. Sarebbe follia preoccuparsi di qualcosa mentre stai morendo.
La nave si muoveva in modo strano, a strattoni, e come se girasse. Molti si sentirono male. L'aria si riempì di particelle maleodoranti e liquide di vomito. Mi liberai le mani quel che bastava a tirarmi sulla faccia il foulard che portavo e usarlo come filtro, fissandone i capi sotto la testa per tenerlo fermo.
Da sotto il fazzoletto non potevo più scorgere l'ampia volta della stiva che si stendeva o sopra o sotto di me, facendomi sentire come se stessi per spiccare il volo o per cadere a precipizio. Era intriso del mio odore, il che mi dava un senso di sicurezza. Era il foulard che usavo spesso quando mi vestivo per una conferenza, un tessuto evanescente di un rosso pallido, dalla trama intessuta di fili d'argento. Quando l'avevo comprato in un mercato della Città, pagandolo con denaro da me guadagnato, avevo ripensato al foulard rosso di mia madre, donatole dalla signora Tazeu. Credo che questo le sarebbe piaciuto, anche se era di un colore meno acceso. Ora giacevo sdraiata guardando attraverso la sua nube rossastra la volta costellata dalle luci di servizio e pensavo a mia madre Yowa. Forse era stata uccisa quella mattina nel complesso. O forse era stata trascinata in un'altra tenuta come donna di piacere, anche se Ahas non era riuscito a trovare traccia di lei. Ripensavo al suo modo di tenere la testa leggermente di lato, deferente eppure attenta, e aggraziata. I suoi occhi erano intensi e luminosi, "occhi con la luce di sette lune", come dice la canzone. Ma io non le vedrò più quelle lune, pensai.
A quel punto mi sentii così strana che per consolarmi e distrarmi la mente cominciai a cantare piano piano, lì da sola nella mia tenda di mussola rossa scaldata dal mio fiato. Cantai i canti di libertà che cantavamo nell'Hame, e poi cantai le canzoni d'amore che mi aveva insegnato la signora Tazeu. Alla fine cantai Oh, oh, Yeowe!, sottovoce dapprima, poi più forte. Sentii una voce unirsi alla mia da un punto di quel mondo di tenue nebbia rossa, una voce d'uomo, poi una di donna. Tutti gli schiavi del Voe Deo conoscevano quella canzone. La cantammo insieme. La voce di un uomo del Bambur s'inserì nel canto con parole nella sua lingua, e altre voci ancora si unirono. Poi il canto si spense. Il pianto del bambino si era affievolito. L'aria era fetida.
Apprendemmo molte ore più tardi, quando finalmente dai filtri fu immessa aria pulita e ci fu detto che potevamo scioglierci i lacci, che una nave della Flotta di Difesa Spaziale aveva intercettato la rotta del mercantile appena fuori dell'atmosfera, ordinandogli di fermarsi. Il capitano aveva deciso di ignorare il segnale. La nave da guerra aveva fatto fuoco, e, benché nulla avesse colpito il mercantile, l'onda d'urto aveva danneggiato i circuiti di controllo. Il mercantile aveva proseguito e non si era visto né saputo più nulla della nave da guerra. Eravamo a circa undici giorni da Yeowe. La nave da guerra, o forse più di una, poteva aspettarci al varco nei pressi di Yeowe. La motivazione che avevano dato al mercantile per l'ordine di arresto era: "sospetto trasporto di merce di contrabbando".
Quella flotta di navi da guerra era stata costruita alcuni secoli prima per proteggere Werel da possibili attacchi da parte dell'Impero Alieno, che non è altro che l'Ekumene. Erano talmente spaventati da quella minaccia immaginaria che avevano profuso tutte le loro energie nel campo della tecnologia spaziale. La colonizzazione di Yeowe ne fu uno dei risultati. Dopo quattrocento anni trascorsi senza alcuna minaccia di attacco, il Voe Deo aveva finalmente accettato che l'Ekumene inviasse nunzi e ambasciatori. Avevano impiegato la Flotta della Difesa per trasportare truppe e armi durante la Guerra di Liberazione. E adesso la usavano come i padroni delle tenute usavano cani e gatti addestrati alla caccia: per recuperare schiavi fuggitivi.
Trovai gli altri due voedeani della stiva, e ci mettemmo accanto spostando le nostre "cinghie" in modo da poter parlare. Tutti e due erano stati portati sul Bambur dall'Hame che aveva pagato per il loro passaggio. Non mi era nemmeno passato per la mente che il viaggio dovesse esser pagato. Intuii chi aveva pagato per me.
«Non si vola su una nave spaziale per amore,» disse la donna. Era uno strano tipo. Era davvero una scienziata. Istruita in chimica ad alto livello dalla compagnia a cui era stata affittata, aveva persuaso l'Hame a mandarla su Yeowe perché era sicura che lì ci sarebbe stato bisogno e grande richiesta delle sue capacità. Era arrivata a ottenere paghe più alte di molti gareot, ma pensava di poter fare ancora meglio su Yeowe. «Diventerò ricca,» diceva.