«Forse quando apriranno la scuola ci sarà gente della città e allora…» Non avevo altro da offrire a lei, e a me stessa, come speranza. «Forse se quest'anno il raccolto sarà buono, e noi otterremo i nostri soldi, potremo prendere il treno…»
Era questa, in effetti, la nostra più ardente speranza. Il problema era come ottenere il denaro dal capo e dai suoi accoliti. Tenevano gli introiti della cooperativa in un casotto di pietra che chiamavano la Banca di Hagayot, e solo loro toccavano il denaro. Ciascuno di noi aveva un conto aperto, che veniva accuratamente aggiornato, col vecchio Bancario-Capo che mostrava i rendiconti scrivendoli sulla terra quando qualcuno glieli chiedeva. Ma le donne e i bambini non potevano ritirare il denaro dai propri conti. Tutto quello che potevamo ottenere era una specie di buono, delle tavolette di creta col sigillo del Bancario-Capo, con le quali potevamo effettuare scambi fra noi, comprare oggetti fabbricati dalla gente del villaggio, vestiti, sandali, attrezzi, collane di perline, birra di riso. Il denaro vero era al sicuro, almeno così ci dicevano, nella banca. Ripensai a quel vecchio schiavo zoppo di Shomeke, che aveva ballato e cantato, "Denaro in banca, o Signore! Denaro in banca!"
Già prima del nostro arrivo, le donne avevano mal tollerato questo sistema. Adesso eravamo in nove di più a essere intolleranti.
Una sera chiesi alla mia amica Seugi, i cui capelli erano bianchi come la sua pelle, «Seugi, hai mai sentito parlare di quel che è accaduto in un luogo chiamato Nadami?»
«Sì,» rispose. «Le donne aprirono la porta. Tutte le donne si ribellarono e fu allora che anche gli uomini si ribellarono contro i Boss. Ma avevano bisogno di armi. E una donna corse nella notte, rubò le chiavi dalla cassa dove le teneva il padrone, aprì la porta del deposito blindato dove i Boss custodivano armi e munizioni e la tenne aperta col peso del proprio corpo in modo che gli schiavi potessero impadronirsi delle armi. Così fecero fuori le Corporazioni e resero Nadami libera.»
«Anche su Werel si racconta questa storia,» dissi. «Anche laggiù si parla di Nadami, dove le donne dettero inizio alla Liberazione. Lo raccontano anche gli uomini. Ma lo raccontano gli uomini di qui? Ne sanno niente?»
Seugi e le altre donne fecero un cenno di assenso.
«Se è stata una donna a liberare gli uomini di Nadami,» dissi, «forse le donne di Hagayot possono liberare i propri denari.»
Seugi rise, poi si rivolse a un gruppo di donne, «Venite a sentire Rakam! Venite a sentire la novità!»
Dopo molte discussioni, durate giorni e settimane, fu deciso per una delegazione di donne, trenta di noi. Attraversammo il ponte sul fossato che ci divideva dal settore degli uomini e chiedemmo di vedere il capo. Il nostro principale argomento di trattativa era il senso di colpa. Furono Seugi e le altre donne del villaggio a condurre la trattativa, perché sapevano fino a che punto potevano spingersi con gli uomini per colpevolizzarli senza suscitare ira e ritorsioni. Standole ad ascoltare udii onore e orgoglio scontrarsi alla pari contro onore e orgoglio. Per la prima volta da quando ero arrivata su Yeowe sentii di appartenere a quel popolo, sentii che il loro onore, che il loro orgoglio erano anche i miei.
Un mutamento non avviene di colpo in un villaggio. Ma al tempo del raccolto seguente le donne di Hagayot poterono ritirare dalla banca la propria parte di guadagno in contanti.
«Adesso occupiamoci del voto,» dissi a Seugi, dato che non c'erano votazioni segrete nel villaggio. Quando aveva luogo un'elezione regionale, perfino per l'universale Approvazione della Costituzione, i capi censivano gli uomini e compilavano le schede. Le donne non le censivano nemmeno. Ottenevano così i risultati già decisi in precedenza.
Non rimasi abbastanza a lungo ad Hagayot per contribuire al successivo cambiamento. Tualtak stava davvero male, resa quasi folle dal desiderio di fuggire dalle paludi verso la città. Lo desideravo anch'io. Così ritirammo le nostre spettanze e Seugi e altre donne ci accompagnarono su un carro trainato da buoi lungo il pontile che attraversava la palude, fino alla stazione-merci. Lì alzammo la bandierina per segnalare al treno in arrivo di fermarsi per caricare passeggeri.
Arrivò dopo qualche ora, un lungo convoglio di vagoni-merci carichi di riso di palude diretto ai mulini di Città di Yotebber. Viaggiammo nel vagone riservato ai ferrovieri e pochi altri viaggiatori, tutti uomini dei villaggi. Portavo un grosso coltello alla cintura, ma nessuno degli uomini si comportò in maniera sconveniente. Fuori dai loro complessi erano incerti e timorosi. Stavo seduta sulla mia cuccetta nel vagone guardando scorrere le vaste paludi selvagge e rigogliose e i villaggi sulle rive del grande fiume e avrei voluto che il treno non si fermasse mai.
Tualtak stava invece distesa nella cuccetta sotto la mia, tossiva ed era agitata. Quando arrivammo a Città di Yotebber era così debilitata che pensai bene di portarla da un dottore. Uno dei ferrovieri, molto gentile, ci indicò come fare ad arrivare all'ospedale coi mezzi pubblici. Mentre ci facevamo sballottare per le vie calde e affollate della città sul mezzo affollato, io mi sentii nonostante tutto felice. Era più forte di me.
All'ospedale ci chiesero i nostri documenti di cittadinanza.
Non sapevo neanche cosa volesse dire. In seguito scoprii che i nostri erano stati consegnati ai capi di Hagayot, che li avevano trattenuti come trattenevano qualsiasi documento delle donne "appartenenti a loro". In quel momento non trovai di meglio che alzare gli occhi e dire, «Non so niente di documenti di cittadinanza».
Sentii una delle donne alle scrivanie dire a un'altra, «Santo cielo, si può essere più polverose di così?»
Mi resi conto delle nostre apparenze, del nostro aspetto sudicio e misero. Sapevo di aver l'aria ignorante e stupida. Ma quando udii quella parola, "polverosa", il mio onore e il mio orgoglio si risvegliarono. Misi mano al mio bagaglio e ne estrassi il mio documento di libertà, quel vecchio foglio che portava la calligrafia di Erod, tutto sgualcito e spiegazzato, tutto polveroso.
«Questo è il mio documento di cittadinanza,» dissi con voce decisa, facendo sobbalzare e girare quelle donne. «È intriso del sangue di mia madre e di quello della madre di mia madre. La mia amica qui è malata. Ha bisogno di un dottore. Portateci da un dottore!»
Una donna piccola e minuta avanzò dal corridoio. «Accomodatevi da questa parte,» disse. Una delle donne alle scrivanie cominciò a protestare. La piccoletta la mise a tacere con un'occhiata.
La seguimmo in un ambulatorio.
«Sono la dottoressa Yeron,» cominciò, poi si corresse. «Lavoro qui come infermiera,» precisò, «ma sono un medico. E voi… voi venite dal Vecchio Mondo? Da Werel? Siediti qui, bambina, e levati la camicia. Da quanto tempo siete qui?»
Tempo un quarto d'ora aveva formulato la diagnosi di Tualtak e le aveva procurato un letto in un reparto, a scopo di riposo e osservazione. Era riuscita a sapere tutto di noi, e mi aveva spedito via con un biglietto di raccomandazione per un suo amico che mi avrebbe aiutato a trovare casa e lavoro.
«L'insegnamento!» aveva esclamato la dottoressa Yeron. «Un'insegnante! Amica mia, sei come la pioggia nel deserto!»
In effetti la prima scuola che contattai era disposta ad assumermi subito, per insegnare qualsiasi materia a mia scelta. Provenendo da un paese capitalista, feci altri giri per altre scuole per vedere di ottenere una paga migliore. Ma tornai alla prima. Mi erano piaciute le persone.
Prima della Guerra di Liberazione, le varie città di Yotebber, abitate da schiavi di proprietà delle Corporazioni che davano in affitto la propria libertà, avevano avuto per sé scuole, ospedali e svariati corsi di qualificazione. Nella Vecchia Capitale esisteva perfino un'università degli schiavi. Le Corporazioni, naturalmente, avevano controllato tutta l'informazione che arrivava a tali istituzioni, tenuto d'occhio e censurato ogni insegnamento e ogni scritto, considerando il tutto in un'ottica mirata al proprio massimo profitto. Ma all'interno di questa struttura limitante gli schiavi avevano avuto libertà di accesso a ogni informazione che potesse loro interessare, e gli Yeowiani di città avevano attribuito grande valore all'istruzione. Durante la lunga guerra, durata trent'anni, tutto questo sistema di concentrazione e passaggio di sapere si era disgregato. Un'intera generazione era cresciuta senza conoscere nient'altro che combattimenti e rifugi, fame e malattie. Il direttore della mia scuola mi disse, «I nostri figli sono cresciuti analfabeti, ignoranti. C'è da meravigliarsi che i capetti delle piantagioni si siano impadroniti del potere dopo la cacciata dei Boss delle Corporazioni? Chi mai avrebbe potuto fermarli?»