Mentre gli invitati cominciavano a sedersi, un giovane venne a parlare al padrone di casa, Yegey, che si rivolse subito a noi.
— Notizie da Karhide — disse. — Il bambino di Re Argaven è nato questa mattina, ed è morto dopo un'ora.
Ci fu una pausa, e un brusio, e poi il bell'uomo chiamato Gaum rise, e levò in alto il suo boccale di birra.
— Che tutti i Re di Karhide possano vivere così a lungo! — gridò.
Alcuni brindarono con lui, ma quasi tutti gli altri non lo fecero.
— Nome di Meshe, ridere della morte di un bambino! — disse un vecchio grasso, vestito di purpureo, sedendosi pesantemente accanto a me, con i gambali larghi intorno alle gambe, come sottane, con il viso carico di disgusto.
Nacque una discussione, su quale dei figli di kemmeri di Argaven potesse venire scelto come erede… perché il re aveva già passato la quarantina, e certamente non avrebbe più potuto avere un figlio della sua carne… e sulla durata della Reggenza di Tibe. Alcuni pensavano che la reggenza sarebbe finita subito, altri avevano dei dubbi.
— Che cosa ne pensate voi, signor Ai? — domandò l'uomo di nome Mersen, che Obsle aveva identificato per un agente karhidiano, che perciò, presumibilmente, era uno degli uomini di Tibe. — Voi siete appena arrivato da Erhenrang, che cosa si dice, là, su queste voci secondo le quali Argaven avrebbe in realtà abdicato senza dare annuncio, passando la slitta a suo cugino?
— Ebbene, ho sentito questa voce, sì.
— Pensate che abbia qualche solido fondamento?
— Non ne ho idea — risposi, e a questo punto il nostro anfitrione intervenne, con qualche osservazione sul tempo; perché gli invitati avevano già cominciato a mangiare.
Dopo che i servitori ebbero portato via i piatti e i resti mastodontici delle portate, sedemmo tutti intorno al lungo tavolo; piccole coppe di un potente liquore vennero servite, acquaviva, lo chiamavano, un nome che ricorre su molti mondi, in diverse variazioni; e allora cominciarono a farmi domande.
Da quando ero stato sottoposto agli esami prolungati dei medici e degli scienziati di Erhenrang, non mi ero più trovato di fronte a un gruppo di persone che volevano che io rispondessi alle loro domande. Pochi karhidiani, perfino i pescatori e i contadini con i quali avevo passato i miei primi mesi, erano stati disposti a soddisfare la loro curiosità… che spesso era stata intensa… semplicemente ponendo delle domande. Erano involuti, introversi, indiretti; non amavano le domande e le risposte. Pensai alla Fortezza di Otherhord, a quel che Faxe il Tessitore aveva detto a proposito delle domande… Gli stessi esperti avevano limitato le loro domande ad argomenti strettamente fisiologici, quali le funzioni ghiandolari e circolatorie nelle quali io differivo più sensibilmente dalla regola getheniana. Non erano mai arrivati a chiedermi, per esempio, in qual modo la continua sessualità della mia razza influenzava le sue istituzioni sociali, o come noi riuscivamo a trattare il nostro «kemmer permanente.» Ascoltavano, quando ero io a parlarne; gli psicologi ascoltavano, quando io avevo parlato loro del linguaggio mentale; ma nessuno di loro era giunto al puntò di farmi un numero sufficiente di domande generali, per formare un quadro adeguato della società terrestre, o della società Ecumenica… nessuno, cioè, con la sola eccezione, forse, di Estraven.
Qui non erano così legati da considerazioni sul prestigio e sull'orgoglio di chicchessia, e le domande, evidentemente, non erano offensive né per chi domandava, né per chi rispondeva. Mi accorsi ben presto, però, che alcuni tra coloro che ponevano le domande lo facevano con l'unico scopo di prendermi in trappola, di dimostrare che io ero una frode. Questo mi fece perdere il controllo per qualche istante. Avevo naturalmente incontrato l'incredulità, in Karhide, ma raramente mi ero imbattuto in una volontà di essere increduli. Tibe aveva inscenato un complicato spettacolo di «seguire lo scherzo», il giorno della parata, a Erhenrang, ma come ora sapevo lo spettacolo aveva fatto parte del gioco che lui aveva giocato per screditare Estraven, e sospettavo che in realtà Tibe avesse creduto in me. Lui aveva visto la mia astronave, dopotutto, il piccolo apparecchio da sbarco che mi aveva fatto discendere sul pianeta; come tutti gli altri, aveva avuto libero accesso ai rapporti degli ingegneri sulla nave e sull'ansible. Nessuno di questi Orgota aveva visto la nave. Avrei potuto mostrare loro l'ansible, ma esso non appariva un Prodotto Alieno abbastanza convincente, essendo così incomprensibile da adattarsi a una beffa, a una frode, come alla realtà. La vecchia Legge dell'Embargo Culturale si opponeva all'importazione di prodotti analizzabili e imitabili a questo punto del contatto, e così non avevo niente con me a eccezione della nave e dell'ansible, della mia valigetta di immagini, dell'indubitabile singolarità del mio corpo, e dell'indimostrabile singolarità della mia mente. Le immagini circolarono intorno al tavolo, e furono esaminate con l'espressione sbrigativa che si vede sui volti di chi esamina le foto di famiglia di qualcun altro. L'interrogatorio continuò. Che cos'era l'Ecumene, domandò Obsle… un mondo, una lega di mondi, un posto, un governo?
— Bene, tutte queste cose, e nessuna. Ecumene è la nostra parola terrestre; nella lingua comune è chiamato Famiglia; in lingua karhidi, probabilmente sarebbe il Focolare. In Orgota, non sono sicuro del termine, perché ancora non conosco bene la lingua. Non la Commensalità, penso, benché ci siano senza dubbio delle somiglianze tra il Governo Commensale e l'Ecumene. Ma l'Ecumene, essenzialmente, non è affatto un governo. È un tentativo di riunire il mistico con il politico, e come tale è, naturalmente, in gran parte un fallimento; ma il suo fallimento ha portato molto più bene al genere umano, di tutti i successi dei suoi predecessori. È una società e possiede, sia pure potenzialmente, una cultura. È una forma di educazione; sotto un certo aspetto, è una specie di grandissima scuola… davvero immensa. I motivi di comunicazione e cooperazione fanno parte della sua stessa essenza, e perciò, sotto un altro aspetto, si tratta di una lega, o di una unione di mondi, in possesso entro certi limiti di un'organizzazione convenzionale centralizzata. È questo aspetto, la Lega, che io ora rappresento. L'Ecumene come entità politica agisce attraverso la coordinazione, non attraverso il governo. Non impone la legge; le decisioni sono raggiunte in virtù di un comune consenso e di un comune consiglio, non in base a un ordine o a una deliberazione obbligata. Come entità economica è incredibilmente attivo, sempre alla ricerca di comunicazioni tra i mondi, mantenendo l'equilibrio del commercio tra gli Ottanta Mondi. Ottantaquattro, per essere precisi, se Gethen entra nell'Ecumene…
— Che cosa intendete dire… non impone la legge? — disse Slose.
— Perché non ha una legge. Gli stati membri seguono ciascuno la propria legge; quando queste diverse legislazioni si scontrano, l'Ecumene svolge opera di mediazione, tenta di trovare un accomodamento legale o etico, o una scelta, o una soluzione di compromesso. Ora se l'Ecumene, come esperimento di organismo sovranazionale, alla fine dovesse fallire, sarà necessario che esso diventi una forza di pace, che crei una propria forza di polizia, e così via. Ma a questo punto non ce n'è bisogno. Tutti i mondi centrali si stanno ancora riprendendo da un'era disastrosa, finita un paio di secoli or sono, ridando vita a idee e talenti perduti, reimparando a parlare… — Come avrei potuto spiegare l'Era del Nemico, e i suoi postumi, a un popolo che non aveva neppure un termine per tradurre la parola guerra?
— Questo è davvero affascinante, signor Ai — disse il nostro anfitrione, il Commensale Yegey, un uomo dai lineamenti delicati, dall'aria gentile e raffinata, e dallo sguardo penetrante. — Ma non riesco a capire che cosa possano volere da noi. Cioè… non fraintendetemi… vorrei sapere cosa ci sia di particolarmente buono, o attraente, per loro, nell'avere un ottantaquattresimo mondo. Un mondo, mi pare anche di aver capito, che non è tra i più brillanti… perché noi non possediamo Navi Stellari e cosi via, come gli altri mondi.