Densi banchi di nebbia provenienti dal mare, lontano e mormorante, stavano invadendo l'isola quando Miles poté finalmente avviarsi verso il suo nuovo alloggio. Gli edifici riservati agli ufficiali erano immersi in un'oscurità grigiastra così umida e fredda che sembrava solidificare l'aria. Miles decise che era un presagio.
Oh, Dio. Quello sarebbe stato un lungo, lungo inverno.
CAPITOLO SECONDO
Il mattino dopo, e con sua sorpresa, quando Miles arrivò in ufficio all'ora che supponeva fosse l'inizio del normale orario di lavoro, trovò il luogotenente Ahn sveglio, sobrio e in uniforme. Non che sembrasse esattamente in forma: seduto a spalle curve davanti a una consolle, faccia gonfia, respiro sibilante, l'uomo fissava con occhi stretti come fessure i colori di una carta meteorologica su uno schermo. Le linee delle isobare e delle perturbazioni si contorcevano confusamente sull'ologramma, in risposta ai segnali del telecomando che stringeva in una mano umida e tremante.
— Buongiorno, signore — disse Miles moderando rispettosamente il tono della voce, e chiuse la porta senza far rumore.
— Eh? — Ahn si volse, restituì automaticamente il saluto e sbatté le palpebre. — Cosa… chi diavolo è lei, uh, alfiere?
— Sono il suo sostituto, signore. Non le hanno detto che avrei preso servizio questa mattina?
— Ah, sì! — Ahn lo guardò meglio. — Certo, molto bene. Entri pure, alfiere. — Essendo già entrato, Miles si limitò ad annuire con un sorrisetto. — Avevo idea di venire a riceverla all'aeroporto — continuò l'uomo gettando un'occhiata all'orologio. — Vedo che è in anticipo. Ma sembra che abbia trovato la strada senza difficoltà.
— Sono arrivato ieri, signore.
— Oh. Avrebbe dovuto presentarsi qui a rapporto.
— L'ho fatto, signore.
— Ah! — L'ufficiale lo scrutò, preoccupato. — È venuto qui?
— Sì, signore. Come ricorderà, lei ha promesso che questa mattina mi avrebbe dato un completo orientamento tecnico sulle procedure di lavoro, signore — mentì Miles, visto che ne aveva l'opportunità.
— Oh. — Ahn esitò, perplesso. — Bene. — La sua espressione si distese un poco. — Già, naturalmente… — Si passò una mano sulla faccia e lo osservò senza parere. La sua reazione all'aspetto fisico di Miles si mantenne nei limiti di quel breve sguardo; dopo di che, forse decidendo che i preliminari sociali s'erano già svolti il giorno prima, cominciò subito a presentargli le apparecchiature allineate alla parete, da sinistra a destra.
Presentare era la parola esatta, visto che tutti i computer e le periferiche avevano nomi femminili. A parte la strana tendenza a parlare delle sue attrezzature come se fossero creature umane, ciascuna con pregi e difetti personali, Ahn sembrava abbastanza coerente quando entrava nei particolari delle procedure. Ogni tanto un'osservazione casuale lo portava a divagare su altri aspetti della sorveglianza meteorologica, finché poi s'interrompeva, con l'aria di non ricordare più cosa stava dicendo. Miles lo riportava allora sull'argomento con qualche domanda pertinente, e prendeva appunti. Dopo aver fatto due o tre giri della stanza grattandosi la testa Ahn riscoprì finalmente i dischi che contenevano i manuali d'istruzioni, ciascuno sotto il rispettivo equipaggiamento tecnico. Fece del caffè fresco con una caffettiera non automatica — Georgette, questo il suo nome — parcheggiata discretamente nell'angolo di uno scaffale, e quindi condusse Miles sul tetto dell'edificio per mostrargli le antenne delle stazioni periferiche e le attrezzature di rilevamento-dati.
Per una mezz'oretta Ahn gli descrisse barometri, collettori, sensori termici e impianti automatici per l'analisi delle precipitazioni atmosferiche e del loro contenuto. Poi il suo mal di capo sembrò peggiorare, malgrado le pillole che aveva buttato giù prima di uscire; tacque, e si appoggiò pesantemente alla ringhiera che circondava le apparecchiature, lasciando vagare lo sguardo sull'orizzonte lontano. Miles gli tenne dietro in doveroso silenzio mentre l'uomo indugiava per qualche minuto su ogni lato della sua stazione meteorologica, come se meditasse profondamente su ciascuno dei quattro punti cardinali. Se con quella pausa introspettiva si stava preparando a lasciare tutto dietro di sé, rifletté Miles, lui poteva invidiare il suo stato d'animo, mal di capo compreso.
Era un mattino pallido e chiaro, e il sole — Miles sapeva che era sorto alle due dopo mezzanotte — si stava alzando di traverso nel cielo. Poche settimane addietro c'era stata la più breve notte dell'anno a quella latitudine. Dal tetto dell'amministrazione, il punto più alto nel raggio di qualche chilometro, si poteva vedere l'intero panorama della Base Lazkowski e del piatto territorio che la circondava.
L'isola Kyril era una piattaforma di roccia lavica larga una settantina di chilometri e lunga circa 160, di forma vagamente ovale, e distava oltre cinquecento chilometri dalla più vicina costa degna di questo nome. «Spoglia e marroncina» erano i termini che avrebbero potuto descrivere tanto l'isola che la Base. La maggior parte degli edifici, inclusi gli alloggi ufficiali dove abitava Miles, erano semisepolti e avevano il tetto coperto da uno spesso strato di terreno locale. Nessuno aveva mai sprecato fondi per terraformare la zona circostante a scopi agricoli. L'isola manteneva la sua originale ecologia barrayarana, malridotta da decenni di uso e di abuso. Strati di spazzatura riciclata e pressata proteggevano anche i tetti delle baracche destinate alle reclute della fanteria, in quel periodo vuote e silenziose. Distese di pozzanghere e di fanghiglia costeggiavano le strade sterrate, i percorsi ad ostacoli e i larghi rettangoli dei campi da gioco e da addestramento.
A sud si scorgeva il mare, non molto mosso ma perennemente grigio sotto i raggi obliqui del sole. A nord, oltre la linea scura della tundra artica, si levava una catena di antichi vulcani spenti.
Miles aveva fatto il suo breve corso di addestramento sulle Scarpate Nere, una zona montagnosa al centro del secondo continente di Barrayar, nevosa e aspra, piena di pericoli, ma dove l'aria era sempre fresca e stimolante. Sull'isola Kyril invece, anche a fine estate, l'umidità salmastra dell'atmosfera si infiltrava sotto il parka e gli penetrava nella carne e nelle ossa, risvegliando nelle sue articolazioni vecchi dolori. Miles si massaggiò le braccia per scaldarsi, senza alcun effetto.
Appoggiato alla ringhiera, Ahn colse il suo movimento con la coda dell'occhio e si voltò a mezzo. — Allora, mi dica, uh, alfiere… lei ha qualche rapporto con il Vorkosigan? Me lo stavo chiedendo ieri mattina, quando ho letto che lei era destinato qui.
— È mio padre — disse Miles, senza guardarlo.
— Buon Dio. — Ahn sbatté le palpebre e fece per raddrizzarsi, poi ci ripensò e poggiò di nuovo studiatamente i gomiti sulla ringhiera. — Buon Dio — ripeté. Si mordicchiò un labbro, mentre nei suoi occhi brillava una luce di comprensibile curiosità. — E… che tipo è?
Che domanda è! pensò Miles, esasperato. Il Conte Aral Vorkosigan, l'ammiraglio. Il colosso della storia barrayarana di quell'ultimo mezzo secolo. Il conquistatore di Komarr, l'eroe della terribile ritirata da Escobar. Per sedici anni Reggente di Barrayar durante la travagliata infanzia dell'Imperatore Gregor, e quindi potentissimo e fidato Primo Ministro nei quattro anni trascorsi dall'incoronazione di Gregor. Il distruttore del Pretendente Vordarian, l'artefice della vittoria nella Terza Guerra Cetagandana, l'irriducibile tigre della pericolosa e aggressiva politica estera condotta da Barrayar negli ultimi due decenni. Il Vorkosigan.
Io l'ho visto ridere di pura gioia, in piedi sul ponte della barca, a Vorkosigan Surleau, gridando istruzioni eccitate mentre imparavo a tirare su la vela e a manovrare il boma e il timone tutto da solo. E l'ho visto piangere fino all'esaurimento e più ubriaco di quanto tu non fossi ieri, Ahn, la notte in cui giunse notizia che il maggiore Duvallier era stato giustiziato per spionaggio. L'ho visto esplodere di rabbia, così rosso in faccia che temevamo per il suo cuore, quando arrivavano i rapporti dettagliati sugli errori che avevano condotto all'ultima rivolta in Solstizio. L'ho visto aggirarsi per Casa Vorkosigan la mattina all'alba, in maglia e mutande, fra uno sbadiglio e l'altro, incitando mia madre insonnolita quanto lui ad aiutarlo a trovare un paio di calzini. Di lui non si può dire che «tipo» è. Lui è se stesso, originale, e come nessun altro.