Mi feci dare da Penny la scheda Farley riguardante re Guglielmo. Era piuttosto esigua, e ciò mi procurò una delusione, finché mi ritenni autorizzato a concluderne che Bonforte non conoscesse bene l’imperatore e che l’avesse incontrato solo in poche occasioni ufficiali. Bonforte era stato Primo Ministro, in precedenza, quando era ancora vivo il vecchio re Federico. Tra le "notizie accessorie" della scheda non c’era la biografia, ma solo un semplice richiamo: "Vedi Casa d’Orange". Non accettai il suggerimento e non andai a vedere: avevo già abbastanza lavoro senza andare a tuffarmi in centinaia di pagine di storia imperiale e preimperiale; del resto mi fidavo delle mie conoscenze: a scuola ho sempre riportato ottimi voti in storia. Tutto ciò che m’interessava sapere dell’imperatore erano le notizie che Bonforte sapeva sul suo conto e che gli altri ignoravano.

Mi venne in mente che nel Farley dovevano comparire anche le schede dei presenti a bordo dell’astronave, in quanto essi erano: 1) persone, 2) che Bonforte aveva incontrato. Chiesi a Penny di passarmele. Lei parve leggermente sorpresa.

Presto però chi fu sorpreso fui io. Sulla Tom Paine c’erano ben sei membri o ex membri della Grande Assemblea. Rog Clifton e Bonforte, ovviamente… ma la prima voce sulla scheda di Dak diceva: "Broadbent, Darius K., onorevole; eletto alla Grande Assemblea per la Lega dei Liberi Naviganti, Divisione Superiore". La scheda diceva inoltre che aveva una laurea in fisica, che era stato campione degli ufficiali di complemento nel tiro alla pistola, ai Giochi Imperiali di nove anni prima, e che aveva pubblicato tre raccolte di poesie sotto lo pseudonimo "Acey Wheelwight". Ciò m’insegnò per sempre a non giudicare una persona semplicemente in base alle apparenze.

C’era anche un’osservazione vergata in fretta, nella calligrafia di Bonforte: "Quasi irresistibile per il gentil sesso e viceversa!".

Anche Penny e il professor Capek erano dei parlamentari. E così Jimmie Washington, eletto (seppi dopo) in un distretto "sicuro". Era il rappresentante della Lapponia, renne e Babbo Natale compresi, senza dubbio. Inoltre aveva ricevuto gli ordini religiosi della Prima Chiesa della Verità Biblica e dello Spirito Santo… una Chiesa di cui non avevo mai sentito parlare, ma che senza dubbio riusciva a spiegare quella sua aria austera e abbottonata, quasi sacerdotale.

Mi divertì soprattutto leggere di Penny: l’onorevole signorina Penelope Tagliaferro Russell. Si era laureata in scienze politiche a Georgetown e a Wellesley, e confesso che la cosa non mi sorprese affatto. Rappresentava all’Assemblea un elettorato femminile universitario di vari distretti, altro seggio "sicuro" (seppi poi), perché quelle donne sono iscritte al Partito espansionista nella proporzione di cinque a una.

Sulla scheda c’erano vari dati sulla sua misura di guanti, sulle altre taglie d’abito, sulle sue preferenze in fatto di colori (e mi sentivo di poterle insegnare qualcosa sul modo di vestirsi) e di profumi ("Passione tropicale", naturalmente), e molti altri particolari, in maggior parte inoffensivi. Ma c’era anche un "commento":

"Nevroticamente onesta — Aritmeticamente inattendibile — Ama vantarsi del suo senso dello humor, che non possiede affatto — Si controlla nella dieta, ma non sa dir di no ai marron glacé — Leggero complesso di ’mamma di tutti’ — Assoluta incapacità di resistere alla tentazione di fronte a qualsiasi forma di parola stampata."

Sotto c’era una seconda aggiunta, scritta di pugno da Bonforte anche questa: "Ah, Ricciolina! Ti ho pescato di nuovo a curiosare."

Quando le restituii le schede, chiesi a Penny se le fosse mai occorso di leggere la sua. Mi rispose semplicemente di farmi i fatti miei. Poi arrossì e si scusò.

Lo studio mi assorbiva la maggior parte del tempo, ma trovai anche il modo di rivedere e completare la somiglianza fisica, controllando al colorimetro la sfumatura del Semiperm, curando le rughe con precisione minuziosa, aggiungendo un paio di nei, e completando l’opera con qualche passata della spazzola elettrica. Per riprendere i miei connotati mi sarei dovuto sottoporre a una dermoabrasione, ma era uno scotto esiguo da pagare per un trucco che non subisse danni, che non si potesse togliere neppure con l’acetone, e che mi garantisse la sicurezza nei riguardi di certi pericoli come i tovaglioli. Arrivai perfino a farmi la cicatrice posticcia alla gamba "zoppa", usando come modello la fotografia conservata da Capek nella cartella clinica di Bonforte. Se Bonforte avesse avuto una moglie o un’amante, ella avrebbe faticato a distinguere l’originale dalla copia solo in base all’apparenza fisica. Per raggiungere una tale perfezione dovetti penare assai, ma almeno, una volta terminata la cosa, la mia mente restò libera di preoccuparsi solo delle parti effettivamente più difficili della sostituzione.

Infatti, durante il viaggio, lo sforzo maggiore fu quello d’immergermi nelle idee e nelle convinzioni di Bonforte, cioè nella dottrina del Partito espansionista. In un certo senso, si potrebbe dire che il Partito espansionista era lui, perché non solo ne era il leader più importante, ma ne era anche il più importante filosofo politico e statista. Allorché il partito era stato fondato, l’Espansionismo era poco più che un movimento basato su una vaga fede in un comune destino: una demagogica coalizione di gruppi che avevano a spartire tra loro solo la convinzione che le frontiere del cielo sarebbero state la cosa più importante nell’avvenire su cui si stava affacciando la specie umana. Bonforte aveva dotato il partito di una dottrina e di un’etica, basate entrambe sulla tesi che la libertà e la parità dei diritti avrebbero sempre dovuto accompagnare l’avanzata della bandiera imperiale. Egli continuava instancabilmente a ribadire il concetto che la specie umana non avrebbe mai più dovuto commettere gli errori di cui si era resa colpevole la razza bianca in Africa e in Asia.

Ma io rimasi molto perplesso sul fatto (su questi argomenti ero un completo ignorante) che i primordi del Partito espansionista mostravano una stretta somiglianza con le teorie politiche propugnate dal Partito dell’umanità. Non sapevo che i partiti, crescendo, spesso cambiano idea come le persone. Sapevo molto vagamente che il Partito dell’umanità era sorto come ramo laterale del Partito espansionista, ma non era una cosa sulla quale mi fossi mai soffermato a pensare. In realtà, era stato un processo inevitabile: mentre i partiti che non avevano alzato gli occhi all’infinità dello spazio scomparivano l’uno dopo l’altro di fronte alle esigenze della storia, e cessavano di venire rappresentati all’Assemblea, era destino che l’unico partito indirizzato sulla giusta via si scindesse in due fazioni.

Comunque, sto correndo troppo. La mia istruzione politica non fu altrettanto schematica né altrettanto ordinata. Dapprima mi lasciai semplicemente affondare nei discorsi tenuti da Bonforte in pubblico. Sì, l’avevo già fatto nel primo viaggio, ma allora mi ero limitato a studiare il suo modo di parlare: ora studiavo il significato delle sue parole.

Come oratore, Bonforte apparteneva alla grande tradizione, ma riusciva ugualmente a essere corrosivo quando s’immergeva nella polemica. Per esempio, il discorso da lui tenuto a Nuova Parigi durante i dibattiti che avevano portato al Trattato con i nidi marziani: al Concordato di Tycho. Era stato appunto quel Trattato a costargli la carica di Primo Ministro; era riuscito a far passare la legge, ma ne erano risultate delle tensioni interne alla Coalizione espansionista, ed egli era uscito sconfitto dal voto di fiducia successivo. Ciò nonostante, il suo successore nella carica, Quiroga, non aveva osato denunciare il Trattato. Ascoltai il discorso con particolare interesse, perché io stesso non ero stato d’accordo, a suo tempo, con il Trattato; l’idea che, sulla Terra, venissero concessi ai marziani gli stessi diritti di cui gli esseri umani godevano su Marte mi era sempre parsa detestabile… finché non avevo visitato il Nido di Kkkah.


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