— Oh, grazie, Sire — risposi in un sussurro.
Si alzò, e mentre anch’io mi affrettavo a mettermi in piedi, scomparve tra un ondeggiar di mantelli. Voltandomi vidi molti visi stupefatti, ma la musica riattaccò subito, e io potei andarmene mentre i figuranti per parti nobili e reali riprendevano le loro educate conversazioni.
Appena sulla soglia, ricomparve come per incanto il colonnello Pateel. — Da questa parte, signore, per favore — disse, mettendosi alle mie costole.
La parte spettacolare era finita; ora veniva la vera udienza.
Pateel mi fece varcare una porticina che immetteva in un lungo corridoio vuoto alla fine del quale, da un’altra porticina, entrammo in un ufficio del tutto normale. L’unica cosa regale contenuta in esso era una grossa targa scolpita: lo stemma della Casa d’Orange con il suo motto immortale: "Io mantengo!". C’era uno scrittoio, ampio e massiccio, sul quale erano sparsi numerosi incartamenti. In mezzo a essi, tenuto fermo da un paio di scarpine da bambino placcate, c’era l’originale della lista di cui conservavo una copia in tasca. Dentro una cornice di rame c’era una foto di famiglia con la defunta imperatrice e i bambini. Contro una parete c’era un vecchio divano un po’ logoro, e, vicino, un piccolo mobile bar. Oltre a una sedia girevole dietro la scrivania, c’erano due poltrone, lutto l’arredamento avrebbe potuto andar bene per l’ufficio di un medico generico molto occupato e non troppo esigente.
Pateel mi lasciò solo, e si ritirò chiudendosi la porta alle spalle. Non ebbi modo di decidere se potevo o no sedermi, perché il re arrivò subito dalla porta opposta. — Salve, Joseph! — esclamò. — Sono subito da lei. — Attraversò a grandi passi la stanza, seguito da due servitori che lo stavano spogliando mentre camminava, e uscì da una terza porta. Ma rientrò quasi subito, allacciandosi la lampo di un giubbotto. — Lei è arrivato prima perché ha preso la scorciatoia. Io ho dovuto seguire la strada più lunga. Voglio farmi un po’ sentire da quell’architetto di Corte: desidero che mi scavi un altro corridoio da qui alla saletta dietro il trono, e accidenti, bisogna che mi decida. Devo sempre farmi tutt’e tre i lati del quadrato: o così, o sfilare in pompa magna per corridoi pieni di gente, bardato come un cavallo da circo. — Aggiunse, meditabondo: — Con quel costume ridicolo metto solo la biancheria intima!
— Sono sempre abiti più comodi della giacca da scimmia che tocca indossare a me, Sire — gli dissi.
Scosse le spalle. — Oh, be’, dobbiamo rassegnarci tutt’e due agli inconvenienti del mestiere. Si è già servito un bicchierino? — Prese la lista dei ministri. — Lo faccia pure, e ne versi anche uno per me — disse, leggendo.
— Che cosa beve, Sire?
— Eh? — ribatté lui, lanciandomi un’occhiata penetrante. — Il solito, naturalmente. Whisky e ghiaccio.
Non feci parola e versai il liquore, aggiungendo un po’ d’acqua tonica al mio. Avevo provato un attimo di paura. Se Bonforte sapeva che l’imperatore era solito bere whisky con ghiaccio, la notizia avrebbe dovuto comparire sul Farley. Invece non c’era scritto niente sui gusti imperiali in fatto di bevande.
Guglielmo, comunque, prese il bicchiere senza dir niente. — Accensione! - mormorò, e riprese l’esame della lista. — Che ne dice di questi giovanotti, Joseph? — disse poi, alzando gli occhi.
— Sire? È un gabinetto provvisorio, naturalmente. — Avevamo cumulato gli incarichi ogni volta che fosse possibile, e così Bonforte, oltre che essere Primo Ministro, teneva anche i ministeri della Difesa e del Tesoro. In tre casi, le nomine provvisorie, erano andate a precedenti sotto-segretari: Ricerche, Amministrazione della Popolazione, ed Esterni. Gli uomini che avrebbero poi dovuto occupare quegli incarichi nel governo permanente ci erano necessari per la campagna elettorale.
— Sì, sì, capisco, è la vostra squadra di riserve. Uhm… questo Braun, che tipo è?
Rimasi sorpreso oltre ogni aspettativa. Secondo quanto mi avevano detto, Guglielmo avrebbe dovuto approvare l’elenco senza far commenti, e probabilmente avremmo fatto quattro chiacchiere su altre cose. Le quattro chiacchiere non mi spaventavano: c’è gente che s’è fatta la fama di conversatore brillante semplicemente lasciando che gli altri parlino sempre loro.
Lothar Braun era quel che si dice un "giovane e promettente uomo politico". Quel che sapevo di lui l’avevo appreso dalle labbra di Rog e di Bill e dal suo Farley. Era entrato nella competizione politica dopo che era caduto il precedente governo Bonforte, quindi non aveva mai preso parte a un Gabinetto, ma si era fatto un’ottima esperienza in seno al Partito, come moderatore nelle riunioni ristrette e come probiviro ufficiale. Bill mi aveva assicurato varie volte che Bonforte si preparava a lanciarlo nella politica di governo, e che un governo provvisorio era il modo migliore perché si facesse le ossa; Bill l’aveva proposto per le Comunicazioni Esterne.
Rog Clifton non mi era parso molto convinto. Prima aveva fatto il nome di Angel Jesus de la Torre y Perez, il precedente sottosegretario, ma poi Bill aveva fatto notare che se Braun era destinato a far fiasco, il governo provvisorio era una buona occasione per scoprirlo senza pericolo e Clifton si era arreso.
— Braun? — risposi. — È un giovane promettente. Persona molto brillante.
Senza fare commenti, Guglielmo continuò a leggere. Intanto io cercavo di ricordare esattamente quello che Bonforte aveva scritto su Braun, nello schedario, come parere personale. "Brillante… lavoratore… mente analitica." Aveva scritto qualcosa di negativo? No… cioè, forse: "Un po’ troppo affabile". Ma non si può condannare un uomo solo per questo. C’era però da tener conto che Bonforte non aveva fatto cenno a virtù positive come la fedeltà e l’onestà. Cosa che però non significava nulla, perché il Farley non è una raccolta di studi di carattere, ma un archivio di notizie.
— Joseph — mi domandò poi l’imperatore, deponendo la lista. — Lei ha intenzione di far entrare subito i nidi marziani nell’Impero?
— Eh? Oh, non certo prima delle elezioni, Sire.
— Su, via, lo sa benissimo che intendo riferirmi a dopo le elezioni. E poi, ha dimenticato come si dice "Guglielmo"? La parola "Sire", sulle labbra di un uomo che ha sei anni più di me, e per di più in un colloquio a quattr’occhi, mi sembra una sciocchezza.
— Sì, Guglielmo.
— Come sappiamo benissimo tutt’e due, si presume che la politica svolta dal nuovo governo non mi riguardi. Ma come sappiamo anche benissimo tutt’e due, questa presunzione è una sciocchezza. Joseph, in questi anni in cui non era al governo, lei ha lavorato per un solo scopo: creare una situazione tale che i marziani desiderino spontaneamente d’entrare a far parte dell’Impero, a parità di diritti. — Additò la verga. — A questo punto, mi pare che lei ci sia riuscito. Quindi, se vincerà le elezioni, potrà avere dalla Grande Assemblea anche un voto di maggioranza su questa legge, e io la proclamerò. No?
Ci pensai sopra. — Guglielmo — risposi lentamente — lei sa meglio di me che questa è sempre stata la nostra intenzione. Però, visto che me lo chiede, è evidente che vuol comunicarmi la sua opinione a proposito.
Facendo girare il bicchiere fra le dita, mi guardò fisso. Sembrava un aristocratico del New England in procinto di fare una ramanzina a un villeggiante. — Mi sta chiedendo un consiglio? La Costituzione esige che sia lei a consigliare me, non viceversa.
— I suoi consigli sono sempre i benvenuti, Guglielmo. Però non posso promettere che li seguirò.
— Accidenti — rise lui. — Lei non vuole mai compromettersi! Bene… Dunque, supponiamo che lei vinca le elezioni e ritorni al Governo, ma con una maggioranza così ristretta da aver difficoltà nel far passare la legge che concede piena cittadinanza ai nidi. In tal caso non le consiglierei di farne una questione di vita e di morte, legandola al voto di fiducia, ma di proporla invece come una legge qualunque: se la legge non passa, pazienza, accetti la sconfitta e buonanotte; ma resti in carica fino al termine del mandato.