— Perché, Guglielmo?

— Perché tanto io che lei siamo persone molto pazienti. Lo vede? — indicò lo stemma dove spiccava il motto del suo casato. — "Io mantengo!" Non è un motto vacuo, perché il compito dei re è di non essere vacui; il compito del re è conservare, resistere, mantenere. Ora, costituzionalmente parlando, non dovrebbe importarmi se lei resterà o no al Governo, ma m’importa che l’Impero stia insieme. Credo che anche se lei sarà sconfitto sulla legge marziana, immediatamente dopo le elezioni, potrà permettersi l’attesa… perché gli altri programmi del suo partito si dimostreranno molto popolari. Lei raccoglierà voti nelle elezioni suppletive, e può darsi che alla fine potrà venire qui ad avvertirmi che posso aggiungere all’elenco dei miei titoli anche quello di "Imperatore di Marte". Perciò, non abbia fretta!

— Ci penserò — risposi senza compromettermi.

— Sì, ci pensi bene. Ora, un’altra cosa: che ne dice del vigente sistema di deportazione?

— Ho intenzione d’abolirlo immediatamente dopo le elezioni, e di sospenderlo subito, appena entrato in carica il governo provvisorio. — Su questo potevo rispondere senza esitazioni; Bonforte lo odiava.

— Ma se ne serviranno per attaccarvi.

— Meglio. Facciano pure: raccoglieremo più voti.

— Sono felice di sentire che lei ha sempre la forza di sostenere le sue convinzioni, Joseph. Non mi è mai piaciuto che la bandiera d’Orange sventolasse su una nave di deportati. E il commercio, libero?

— Sì, dopo le elezioni.

— E per compensare le perdite dei dazi?

— Siamo del parere che il commercio e la produzione avranno una tale espansione, lasciati liberi, che le altre imposte dirette compenseranno la perdita dei dazi.

— E se invece non fosse così?

Non ero preparato a fornire controrisposte a questo tipo di domande, tanto più che l’economia è sempre stata un mistero per me. Feci un sorriso: — Guglielmo, su questa domanda devo chiedere ulteriori informazioni ai miei collaboratori. Tutto il programma del Partito espansionista si basa sul concetto che il libero scambio, i liberi traffici, le libere comunicazioni, la cittadinanza collettiva, la moneta comune, e il minimo possibile di leggi e di restrizioni imperiali, siano utili non solo ai cittadini dell’Impero, ma anche all’Impero stesso. Se ci occorreranno fondi li troveremo, ma senza bisogno di spezzettare l’Impero in piccole giurisdizioni amministrative. — Eccetto la prima frase, era tutto Bonforte puro, con qualche leggero adattamento.

— Mi risparmi questi bei discorsi elettorali — borbottò. — Era solo una domanda. — Riprese la lista. — È proprio sicuro che questo elenco di nominativi sia quello che lei desidera in cuor suo?

Tesi la mano, ed egli mi passò il foglio con i nomi. Accidenti, era chiaro come il sole che l’imperatore mi diceva, con tutta l’intensità permessagli dalla Costituzione, che secondo lui il nome di Braun non andava bene. Ma, per tutti i diavoli, non era affar mio cambiare la lista elaborata da Bill e Rog.

D’altra parte, in fin dei conti, non era la lista di Bonforte. Era soltanto il modo in cui Bill e Rog pensavano d’interpretare la volontà di Bonforte se fosse stato compos mentis.

In quel momento desiderai di poter prendere tempo per chiedere a Penny cosa ne pensasse di Braun.

Ma poi mi decisi. Presi dallo scrittoio di Guglielmo una penna e, tirata una riga sul nome "Braun", scrissi "de la Torre"… in stampatello perché non mi fidavo ancora di riuscire a imitare la calligrafia di Bonforte. L’imperatore si limitò a osservare: — Mi pare un ottimo governo. Buona fortuna, Joseph. Lei ne avrà bisogno.

Con ciò terminava l’udienza. Ero ansioso d’andarmene, ma non ci si può congedare da un sovrano: sono i sovrani che congedano i visitatori; è una delle poche prerogative che conservano ancora. Desiderava mostrarmi il suo laboratorio e i suoi nuovi modellini ferroviari. Credo sia stato lui più d’ogni altro a far rivivere quell’antico passatempo, anche se, personalmente, non riesco a vederlo come un’occupazione adatta a un adulto. Feci però dei suoni educati quando mi mostrò la sua nuova locomotiva giocattolo, una riproduzione in miniatura del "Royal Scotsman".

— Se ne avessi avuto la possibilità — mi confidò il re, mettendosi carponi a guardare l’interno del motore — sarei diventato un bravo capofficina, credo. Oppure un primo macchinista. Ma un certo incidente occorsomi alla nascita mi ha portato un grave handicap al riguardo.

— Guglielmo, pensa davvero che l’avrebbe preferito?

— Non lo so. Questa mia professione non è poi male. Il lavoro è facile, la paga è buona. Inoltre, fornisce un’invidiabile sicurezza per il futuro… se si esclude il rischio di qualche rivoluzione. Vengo da una famiglia che ha sempre avuto fortuna in queste cose. Però la maggior parte del lavoro è noiosa, e la potrebbe fare altrettanto bene un qualsiasi attore d’avanspettacolo.

Mi rivolse un’occhiata. — Tolgo alle cariche come la sua un mucchio di fastidi: pose delle prime pietre, sfilate eccetera. Lei lo sa.

— Certo, e l’apprezzo molto.

— Una volta ogni tanto, ma proprio una volta ogni tanto, mi si offre la possibilità di dare una piccola spinta nella direzione giusta… o in quella che a me sembra tale. Quella del re è una professione molto strana, Joseph. Cerchi di non farla mai.

— Credo che sarebbe un po’ tardi, anche se lo volessi.

Apportò qualche piccola regolazione al motore del giocattolo. — In effetti, la mia vera funzione è quella di evitare che le persone come lei diventino pazze.

— Come? — feci, sbalordito.

— Certo. Le malattie professionali dei capi di Stato sono le psicosi collegate alla loro carica. Coloro che mi hanno preceduto nel mestiere di re, quelli che governavano sul serio, intendo dire, erano quasi tutti un po’ tocchi nel cervello. E guardi anche i suoi presidenti americani; spesso il lavoro finiva col portarli a una morte prematura. Ma io non ho di queste preoccupazioni: non devo governare. Ho un professionista come lei che lo fa al posto mio. E anche lei non deve subire quella pressione che porta all’infarto: può sempre rassegnare le dimissioni quando le cose diventano troppo difficili, e il vecchio imperatore (si tratta quasi sempre di un "vecchio" imperatore, perché noi saliamo al trono nell’età in cui gli altri vanno in pensione) è sempre lì, a mantenere la continuità, a conservare il simbolo dello Stato, mentre voi professionisti pensate alle nuove frontiere. — Mi fece una solenne strizzata d’occhio. — Il mio lavoro non sarà dei più interessanti, ma è utile.

Dopo un po’ non insistette più con quei suoi trenini infantili e ritornammo nel suo ufficio. Pareva che stesse per congedarmi. E infatti mi disse: — Penso che sia ora che la lasci tornare alle sue occupazioni. Il viaggio è stato faticoso?

— No, non troppo. L’ho passato lavorando.

— Già, certo. A proposito, chi è lei?

C’è la mano del poliziotto che vi tocca sulla spalla; c’è lo shock che provate quando, al buio, credete di salire o di scendere lo scalino che non c’è; c’è la caduta dal letto, in pieno sonno; e c’è il marito della vostra amante che torna a casa inaspettatamente. Ebbene, avrei preferito tutte queste cose messe insieme invece di quella semplice domanda. In quel momento credo d’essere invecchiato, internamente, tanto da pareggiare l’età mostrata dal mio trucco; forse anche più.

— Sire?

— Andiamo — esclamò con impazienza. — La mia professione comporta qualche privilegio, stia tranquillo. Mi dica la verità. Sarà almeno un’ora che mi sono accorto che lei non è Joseph Bonforte… anche se, a dire il vero, lei riuscirebbe a ingannare sua madre. Ha perfino tutte le sue affettazioni. Insomma, chi è lei?

— Mi chiamo Lawrence Smith, Sua Maestà — dissi con un fil di voce.

— Coraggio, amico. Se avessi voluto, avrei fatto chiamare le guardie già da un pezzo. L’hanno mandata qui per assassinarmi?


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