CAPITOLO TERZO
Stazione Kline era il frutto di una crescita durata trecento anni, e tuttavia Ethan fu colto di sorpresa dalla vastità delle sue dimensioni e dalla sua complessità. La stazione era stata costruita in una regione di spazio dove ben sei corridoi di transito facevano convergere altrettante rotte di balzo entro una distanza ragionevole a velocità sub-luce. La stella spenta a cui si doveva quell’anomalia nella Distorsione Galattica non aveva pianeti, e così l’immensa struttura discoidale ruotava da sola in un’orbita lenta, nella zona esterna del suo pozzo gravitazionale buio e freddo come lo Stige.
La Stazione Kline aveva già alle spalle cent’anni di storia quando il pianeta Athos era stato scoperto e colonizzato; aveva funto da base e punto di partenza per l’ultima fase del nobile esperimento dei Padri Fondatori. Valeva poco sotto l’aspetto militare per la difesa di quel nodo per le rotte da balzo, ma era un ottimo posto per gli scambi commerciali, e aveva cambiato proprietario un certo numero di volte quando l’uno o l’altro dei mondi più prossimi s’era assunto l’incarico di difendere i suoi corridoi di transito, nonché i suoi incassi. Attualmente manteneva una precaria indipendenza politica basata sugli intrighi militari dei vicini, sulla determinazione dei suoi abitanti, su una buona capacità nel fare affari con tutti, e sulla nascita di un sentimento nazionale che poteva senz’altro chiamarsi patriottismo. Circa centomila cittadini kliniani vivevano nel suo ramificato labirinto di sezioni, e nei periodi di maggior traffico la stazione poteva ospitare fino a ventimila turisti o viaggiatori di passaggio.
Queste notizie e altre ancora Ethan le aveva apprese dagli impiegati della nave del censimento. L’equipaggio era composto da otto membri tutti di sesso maschile, e questo particolare, aveva scoperto lui, non si doveva al loro rispetto per le leggi e le usanze di Athos, bensì alla scarsa propensione delle impiegate femmine dell’Ufficio Censimento a trascorrere lunghi mesi nello spazio senza la prospettiva di una vacanza al suolo su un pianeta che consentisse loro quel semplice diritto. Ciò aveva dato a Ethan un po’ di respiro prima di trovarsi immerso nella cultura galattica. L’equipaggio era stato cordiale con lui, ma non troppo desideroso di penetrare nel suo timido riserbo, così Ethan aveva trascorso la maggior parte di quei due mesi di viaggio nella sua cabina, studiando videolibri di medicina e preoccupandosi.
Come preparazione aveva deciso di leggere tutti gli articoli scritti da e sulle donne delle sue copie dei Giornale Betano di Biologia Riproduttiva. C’era la biblioteca della nave, naturalmente, ma il suo contenuto non era stato certo approvato dall’Ufficio della Censura Athosiano, e lui non sapeva esattamente quale livello di sicurezza gli fosse attribuito per quella missione. Meglio rispettare i precetti delia virtù che gli erano stati insegnati, s’era detto con cupa determinazione; sapeva che ne avrebbe avuto bisogno.
Femmine. Replicatori uterini con le gambe, ecco cos’erano. Lui non sapeva bene se la loro natura fosse quella di provocare l’uomo al peccato, o se il peccato fosse qualcosa di insito in loro come il succo in un’arancia, oppure se il peccato fosse un contagio che emanava da loro tipo un virus. Avrebbe dovuto studiare con più scrupolo durante l’educazione religiosa della sua infanzia, anche se l’argomento non era infine così proibito che non se ne parlasse in giro, se proprio uno aveva voglia di sviscerarlo. E tuttavia, quando lui leggeva gli articoli scientifici del Giornale, il loro contenuto non faceva affatto capire o supporre quale fosse il sesso dell’autore.
Questo non aveva senso. Che fossero le loro anime dunque, e non le loro menti, ad essere così diverse? Uno degli articoli del quale lui aveva creduto che l’autore fosse un uomo era risultato scritto da un ermafrodita betano, un sesso che non esisteva ancora quando i Padri Fondatori avevano colonizzato Athos. Ma che genere di sesso era? Per un poco lui s’era perso in fantasticherie immaginando i problemi dei funzionari dell’Ufficio Doganale Athosiano se una creatura simile avesse chiesto il visto d’ingresso, mentre i medici cercavano di capire se la sua mascolinità escludesse la sua femminilità o viceversa… probabilmente il dilemma sarebbe stato deferito a un comitato, che ci avrebbe ponderato sopra per tanto di quel tempo che l’ermafrodita avrebbe rischiato di morire di vecchiaia.
L’Ufficio Doganale di Stazione Kline si rivelò non meno burocratico e tedioso, a causa delle procedure di controllo e disinfestazione microbiologica più capillari che Ethan avesse mai visto. Ai kliniani, almeno in apparenza, non importava niente che uno contrabbandasse anni, droghe, o fosse un criminale evaso da qualche penitenziario, purché le suole delle sue scarpe non ospitassero spore misteriose o virus mutanti. Il preoccupato terrore di Ethan e, doveva ammetterlo, la sua famelica curiosità, erano giunti al culmine quando gli fu finalmente permesso d’incamminarsi nel corridoio tubolare che collegava l’astronave al resto dell’universo.
Al primo sguardo il resto dell’universo risultò deludente: un lungo molo, freddo e maleodorante, dove sfociavano le strutture di scarico e smistamento per le merci delle navi mercantili. L’incolore faccia meccanizzata di Stazione Kline, si disse, era evidentemente come il retro di un arazzo ricamato che senza dubbio avrebbe fatto un migliore effetto una volta visto dal giusto lato. Perplesso si domandò quale della dozzina di uscite visibili da lì conducevano verso i settori destinati ad abitazione e alle attività commerciali. L’equipaggio della nave aveva da fare a bordo, e i tre membri appena sbarcati erano già scomparsi; la squadra di disinfestazione della Dogana aveva fatto il suo lavoro e se n’era andata senza una parola, come se fosse attesa con urgenza su un’altra nave. Allo sbocco di un tunnel un’unica solitaria figura stava appoggiata con le spalle al muro, nell’universale atteggiamento pigro e casuale di chi osserva gli altri al lavoro o sta aspettando qualcuno. Ethan controllò la reazione dei suoi canali semicircolari alla gravità del molo, tenne stretti i manici della sua borsa da viaggio e si avviò a passi misurati in quella direzione.
L’elegante uniforme bianca e grigia che l’individuo indossava era sconosciuta a Ethan, ma evidentemente militare, dato che la completava un cinturone da cui pendeva la fondina di una pistola. Null’altro che uno storditore, il cui possesso era legale sulla stazione, anche se il calcio appariva lievemente consunto e la fondina — lui lo notò subito, fiero della sua perspicacia — non era di quelle chiuse che facevano perder tempo prima di estrarre l’arma.
Il soldato, giovane e snello, s’era girato nel sentire avvicinarsi i passi di Ethan, e dopo averlo esaminato da capo a piedi con aria distratta aveva continuato a guardarlo, accorgendosi che veniva verso di lui con l’intenzione di rivolgergli la parola. La sua bocca si curvò in un sorrisetto cortese, quando lo vide fermarsi lì.
— Mi scusi, signore, posso chiederle… — cominciò Ethan, ma subito s’interruppe, incerto. Fianchi troppo arcuati per una figura così snella, occhi troppo larghi e distanziati ai lati di un naso finemente cesellato, mascella sottile e delicata, un volto liscio senza barba come quello di un ragazzino… e avrebbe potuto essere un ragazzino assai avvenente e piuttosto alto per la sua età, ma…
La risata di lei (quello era il pronome che le si addiceva, non potevano esserci dubbi) suonò stranamente acuta agli orecchi di Ethan, che stava arrossendo. — Ehi… tu devi essere un athosiano, è così? — lo interpellò divertita quella voce un paio di ottave troppo alta. — Volevi chiedermi qualcosa?
Ethan fece un passo indietro, prima d’accorgersi che quello era il secondo passo indietro. Be’, cercò di giustificarsi, la persona che si vedeva davanti non aveva niente in comune con la foto della scienziata di mezz’età sul Giornale Betano. Era stato un errore più che comprensibile da parte sua. Comunque, s’era appena ripromesso che avrebbe evitato di parlare con le femmine, per quanto umanamente possibile, ed ecco che stava già… Si schiarì la voce. — Come si fa per uscire da qui? — mormorò, gettando occhiate a destra e a sinistra lungo il molo.