Angai s’interruppe per bere un po’ di latte. Nia restò in attesa.

— Sostengono che più a oriente di dove stanno loro c’è un popolo che rimane in un unico posto. Non si sposta mai.

Nia fece il gesto dello stupore.

— Vivono in case fatte di legno. Le case non possono essere ripiegate o smontate. Sono solide come scatole.

"A quanto sostiene il Popolo dell’Ambra, vivono nei pressi di una foresta e i loro uomini vivono nella foresta. Non conducono in branco gli animali come dovrebbero fare gli uomini. Invece cacciano e pescano pesci. Le donne non hanno una grande opinione di loro. Dicono che tutti gli uomini sono selvaggi e cattivi."

— È il Popolo dell’Ambra che lo dice?

— No! No! È il popolo che non si sposta mai. In realtà, secondo il Popolo dell’Ambra, alcune fra le donne rifiutano di accoppiarsi con gli uomini.

Nia si grattò il capo. — Com’è possibile?

— Quando arriva la smania primaverile, si allontanano a coppie, due donne insieme. Si accoppiano fra di loro.

Per un attimo Nia restò seduta in silenzio a fissare il fuoco. — Come fanno a generare figli?

— Nel solito modo. Il Popolo dell’Ambra sostiene che pochissime fra le donne si accoppiano soltanto con altre donne. La maggior parte di loro vuole avere figli, così si accoppiano con gli uomini finché non hanno tutti i figli che vogliono.

Nia si grattò di nuovo la testa. — È una storia molto strana.

— Sì. Mi piacerebbe andare a visitare quel popolo.

— Sono delle pervertite! — saltò su Hua. — E le donne del Popolo dell’Ambra sono una massa di bugiarde. Non esiste un popolo simile. Case di legno! Che idea balorda!

Angai aveva l’aria infuriata.

— Non voglio parlare più di questo — disse Nia. — Questa storia mi mette a disagio.

L’inverno fu freddo. Di notte, nel cielo a settentrione, brillavano luci. Erano verdi, bianche e gialle.

— Il fuoco dell’inverno — spiegò Hua. — Lassù a nord riempie il cielo. Noi non lo vediamo spesso quaggiù.

— Porta sventura — sentenziò Ti-antai.

Cadde la neve. Al villaggio ci fu un’epidemia di tosse e molte persone morirono. Erano per lo più donne anziane e bambini molto piccoli.

Suhai si prese la malattia. Per qualche tempo, nel periodo buio dopo il solstizio, tutti pensarono che sarebbe morta. Ma alla fine si ristabilì, seppure lentamente. Per tutto il resto dell’inverno rimase nella sua tenda, accudita da Nia e da Ti-antai. Era duro per Nia andare a trovarla e vederla rannicchiata lì accanto al fuoco. La sua pelliccia era più grigia che bruna e aveva un aspetto ossuto e infelice.

Nia si domandava perché mai le si contraesse la gola alla vista della vecchia. La matrigna non le piaceva neppure.

Finalmente giunse la primavera, una primavera fredda e piovosa. Le mani di Hua divennero così rigide che non era in grado di lavorare alla fucina. — Questo posto è pervaso dalla malasorte — si lamentò.

— Credo che tu abbia ragione — convenne Nia.

Gli alberi misero foglie di un colore azzurro chiaro e fra le canne rinsecchite nel lago sbocciavano fiori. Erano gialli e arancione. Altri fiori, bianchi e minuscoli, comparvero ai margini della pianura. Nia incominciò a sentirsi irrequieta. La smania primaverile, pensò. Iniziò così a radunare provviste.

— Perché io non provo la smania? — domandò Angai.

— Tu sei più giovane di me. — Nia si chinò e osservò gli oggetti che aveva preparato durante l’inverno: lunghi coltelli e aghi, fermagli, lime e punteruoli. Qual era il dono adatto?

— Sono più giovane solo di mezzo anno — disse Angai. — Non è molto.

— Perché lo chiedi a me? Che cosa ne so? Domandalo a tua madre.

Angai se ne andò. Nia comprese che era in collera. Peccato. Allungò la mano e raccolse un coltello. Aveva una buona lama, fatta di ferro che era stato piegato e ripiegato. Questo sarebbe andato bene, pensò. E anche aghi e un fermaglio, e magari del cuoio della conciapelli.

Si alzò in piedi. E ora, del cibo per il viaggio.

Quella notte sognò di Anasu e di cavalcare per la pianura. Si svegliò, sentendosi più smaniosa di prima. Sollevò il lembo della tenda e lo fissò, lasciando entrare la luce del sole. L’aria era tranquilla e mite e odorava della vegetazione nuova. Pensò: partirò oggi, prima che la smania diventi ancora più forte. Cavalcherò finché non dimenticherò questo inverno terribile. Si voltò a guardare Hua.

— Lo so — disse la vecchia. — Qualche volta vorrei provare ancora la smania. Allora penso: devo essere davvero pazza per desiderare una cosa del genere. In ogni caso, va’.

Nia riempì le bisacce da sella e andò in cerca del suo cornacurve preferito. A mezzogiorno era già in viaggio. Il cornacurve era irrequieto e voleva correre e Nia glielo permise. Dopo un po’, l’animale rallentò, poi si fermò. Nia si guardò attorno. Era sola. Da ogni parte, la pianura si estendeva ondulata fino all’orizzonte. Trasse un respiro profondo, poi espirò. Il cornacurve agitò le orecchie.

Dove voleva andare? Non a ovest, decise. Là c’erano la mandria e gli uomini maturi. No. Sarebbe andata a sud, verso le colline dove stavano i giovani. Lanciò uno sguardo al sole e poi alla propria ombra, quindi diresse il cornacurve verso sud.

Viaggiò per tre giorni. Il tempo si mantenne sereno. Non incontrò neppure una persona, nulla all’infuori degli uccelli e dei piccoli animali che vivevano sulla pianura. Pian piano la smania andava facendosi più forte. Era una sensazione quasi piacevole. Cominciò a chiedersi che genere di uomo avrebbe incontrato quell’anno.

Il quarto giorno il cielo si annuvolò e si levò il vento. A mezzogiorno Nia arrivò alle colline meridionali. Erano basse, con parecchi affioramenti di roccia. C’erano alberi sulle colline. Una specie era in fiore. Qui e là, sui pendii azzurrognoli, c’erano chiazze di giallo. Nia trovò impronte di animali che costeggiavano un corso d’acqua. Conducevano a est, fra le colline. Seguì quella pista, sentendosi un po’ inquieta. Non era abituata ai luoghi dove il cielo era limitato.

— Oh Madre delle Madri, abbi cura di me — bisbigliò.

Più in alto, i rami si muovevano. Le foglie stormivano, un rumore forte, diverso dal sommesso fruscio della vegetazione che si muoveva sulla pianura.

Nia pregò la Signora della Fucina. — Riportami a casa sana e salva, o santa.

Nel tardo pomeriggio incontrò un uomo. Era in cima a una collinetta, seduto su una roccia. Non c’erano alberi nelle vicinanze, solo arbusti dalle piccole foglie verdeazzurre. Il suo cornacurve stava brucando un arbusto.

Nia trattenne l’animale. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata.

— Mi sembrava di aver visto una donna. Che sorpresa! Nia, sei tu?

Lei lo guardò. Era bruno scuro e i suoi occhi erano grigi. Un colore molto insolito. — Enshi? — Notò che la sua tunica era sbrindellata. Appariva magro.

— Come sta mia madre? E tu che ci fai qui? Le donne non si spingono mai così a sud.

Lei aprì la bocca per rispondere. Enshi si alzò, poi saltò giù dalla roccia. — Parliamo più tardi. C’è un odore che emana da te, Nia. Non so dirti l’effetto che mi fa. — Tese una mano. — Andiamo.

La sua pelliccia scura scintillava al sole. Tutt’a un tratto Nia si rese conto di quanto fosse bello. Smontò e legò il suo cornacurve, poi prese il mantello.

Andarono fra i cespugli e si accoppiarono lì. Il terreno era sassoso. Le foglie avevano un fresco profumo primaverile. Quanto a Enshi, era un po’ impacciato, ma perfettamente all’altezza.

Quando ebbero finito, lui si rigirò sulla schiena. — È tutto qui, allora? Mi aspettavo di più. Tuttavia… — La guardò, gli occhi grigi semichiusi. Allungò una mano e la toccò con dolcezza. — Che pelliccia morbida! — Fece un sommesso suono di gola, una specie di ruh, poi chiuse del tutto gli occhi e si addormentò.

Nia tirò su il mantello in modo da coprirli entrambi. Osservò i cornacurve, poi il cielo. Il sole era sparito ma le nuvole avevano ancora una radiosità bianca e di un oro tenue. Si sentiva assonnata e felice.


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