Lui era più grande di come se lo ricordava e aveva un torace molto ampio. La sua pelliccia era ruvida e scura. Indossava un gonnellino rosso, un’alta cintura, alti stivali, un coltello dall’impugnatura d’argento. — Nia? — disse dopo un momento. Restò a fissarla. — Hai superato la smania. — La sua voce aveva un suono aspro e deluso. — Ti ha presa qualcun altro.

— È una cosa da dire questa? Gli uomini non sanno pensare ad altro che al sesso?

Lui scoppiò in una risata. Non era un suono del tutto affabile. — In questo periodo dell’anno non penso quasi a nient’altro. Mi dico che, se fossi coraggioso, andrei a nord. Poi penso: non sono abbastanza maturo per affrontare quegli uomini. E tu che cosa ci fai qui?

Lei fece il gesto del dubbio.

— Non hai mai avuto le idee chiare. — Smontò di sella. — Vuoi del sale? Ne ho.

— No. Voglio parlare. Come stai? — Fece un passo verso il fratello.

Lui alzò una mano. — Resta dove sei. Non sono abituato alla gente.

Nia si fermò.

Dopo un po’, Anasu disse: — Sto bene. Non c’è niente che tu voglia darmi in cambio del sale?

Lei si tolse la cintura. — Vuoi questa? Ho fatto io la fibbia. È oro misto ad argento.

Lui esitò. — D’accordo. — Si voltò verso le bisacce da sella.

— Non voglio sale. Voglio fare conversazione.

Anasu si girò di nuovo verso di lei e la fissò. — Perché?

— Fratello, quando penso a te, mi sento sola.

Anasu si grattò la nuca. Poi fece il gesto che significava "così sia" oppure "sono cose che capitano".

— Non c’è modo di parlare?

Lui restò in silenzio per un lungo momento. Nia aspettava. Infine Anasu disse: — Non credo che ciò che tu vuoi siano parole. Potrei offrirti parole, anche se non sarebbe facile. Non sono più abituato a parlare molto o a dire quello che mi passa per la mente. Ma credo che tu voglia qualcos’altro. Credo che tu sia come la donna dell’antica leggenda, i cui figli si trasformarono in uccelli. Lei lasciò la propria tenda e vagabondò per la pianura nel tentativo di trovarli. Ma non ci riuscì mai, e alla fine morì e diventò uno spirito, uno spirito malvagio, uno spirito famelico. — Esitò e aggrottò la fronte.

Nia aprì la bocca per parlare, ma lui alzò la mano. — No. Aspetta. Voglio seguire il corso dei miei pensieri. — Lei attese. Alla fine lui disse: — Credo che tu voglia qualcosa che non esiste più.

— No.

— Ti conosco, sorella. Sono convinto di avere ragione. In ogni caso, non voglio più parlare. — Montò in sella al suo cornacurve. — Qualsiasi cosa tu stia cercando di fare, non voglio entrarci. — Fece il gesto dell’addio, poi girò l’animale e se ne andò.

Nia serrò il pugno e colpì la pietra magica. Aiya! Che male! Emise un gemito, aprì la mano e la palpò. Per quanto era in grado di capire, non c’erano ossa rotte, ma la pelle era graffiata sul lato della mano privo di pelliccia. Si leccò la sbucciatura, poi si sedette e restò lì a dondolarsi e a gemere. Non serviva a niente. La mano continuava a farle male e il dolore dentro di lei persisteva, solido come una pietra.

Verso sera si alzò e accese un fuoco. Per tutta la notte se ne stette seduta a guardare le fiamme e a pensare alla propria infanzia.

La mattina dopo spense il fuoco e sellò il suo cornacurve. Era inutile restare. Anasu non sarebbe tornato. Era sempre stato testardo. Si diresse a nord. Il cielo era nuvoloso e soffiava un vento freddo. Petali di fiori cadevano svolazzando sulla pista. Erano gialli o di un bianco verdognolo.

Nel pomeriggio incominciò a piovere. Nia si fermò e si accampò sotto una sporgenza rocciosa. Si addormentò presto. Qualcosa durante la notte la svegliò

Il fuoco ardeva ancora. Sul lato opposto c’era Enshi. Stava spennando un uccello.

Nia sollevò il capo. Lui fece il cenno del saluto, poi sollevò l’uccello. Era grande e grasso.

— L’ho trovato su un nido. Ho le uova, se non si sono rotte. Come stava Anasu?

— Non ha voluto parlarmi. E tu che cosa ci fai qui?

— Sei nel mio territorio, e ho pensato che forse avresti avuto fame. Ho pensato anche che mi sarebbe piaciuto parlare ancora un po’.

— Perché sei così diverso dagli altri uomini?

— Non lo so. — Per un attimo parve imbarazzato. Poi riprese a spennare l’uccello.

Nia si addormentò.

Al mattino cucinarono l’uccello farcito con le sue uova. Mangiarono, poi Nia si preparò ad andarsene.

— Posso venire con te? — le chiese Enshi.

— Che intenzioni hai?

— Voglio far visita a mia madre. Pensavo che tu potessi mostrarmi la via per il villaggio.

— Ma le vecchie ti malediranno.

— No, se mi dirai dove si trova la tenda di mia madre e io sgattaiolerò dentro di notte. Le vecchie non lo sapranno mai.

— È sbagliato.

— Può darsi. Ma ho perso tutti i miei doni di addio. Non sopravviverò a un altro inverno con quello che ho. Io voglio vivere, se mi sarà possibile. E non mi importa se farò delle cose che sono vergognose. Chissà che cosa provano gli spiriti dei morti? Preferisco essere vivo e un po’ imbarazzato.

Nia lo osservò per un attimo. Non c’era dubbio che fosse magro, e la sua tunica era proprio a brandelli. Si fregò la mano, che le faceva ancora male, poi sospirò. — D’accordo. Ti aiuterò, anche se prevedo che me ne pentirò.

Enshi sellò il suo cornacurve. Partirono insieme per il nord.

Lixia

Otto di noi furono fatti atterrare, ciascuno per proprio conto: tre sul continente grande, che si estendeva con una forma irregolare attorno al polo meridionale del pianeta, pieno di crepacci e lobi. Il centro del continente era costituito da ghiaccio. Le coste erano verdi, verdeazzurre e gialle: praterie, foreste e deserti, a detta delle persone che analizzavano gli ologrammi.

Altri quattro andarono sul continente piccolo, che si trovava a nord dell’equatore. Lì non c’erano ghiacci degni di nota e quasi nessun deserto, ma vegetazione in abbondanza. C’erano montagne: una catena a occidente, lungo la costa, e altre catene minori a est e a sud. Nulla di imponente, nulla di simile alle Montagne Rocciose o all’Himalaya. Ma, secondo i planetologi, due delle catene erano vulcaniche. Una era attiva. L’altra poteva esserlo.

L’ultima persona fu fatta atterrare su una delle numerose isole dell’arcipelago che dal continente grande si estendeva ad arco fin oltre l’equatore, raggiungendo quasi il continente piccolo.

Altre isole costellavano il resto del pianeta-oceano. Erano piccolissime e assai distanziate fra loro. Interessanti per i biologi, naturalmente. Non c’è niente come un’isola per studiare l’evoluzione. Decidemmo, però, che non erano il posto dal quale avremmo dovuto iniziare.

Io andai sulla costa nordorientale del continente settentrionale. Ero equipaggiata con una giacca di tela di jeans e una leggera camicia di cotone. I miei stivali erano di plastica, resistenti e flessibili. Nell’avambraccio destro, sotto la pelle, avevo una fila di capsule che mi fornivano le vitamine che non erano disponibili su questo pianeta. Nel mio intestino c’erano cinque nuovi tipi di batteri, studiati per scomporre le proteine locali, trasformandole in aminoacidi che io potessi digerire.

Avevo uno zaino che conteneva una radio, una cassetta con l’attrezzatura medica, un poncho, un’altra camicia, esattamente come la prima, e un cambio di biancheria. Un grosso scomparto era pieno di gingilli. Questi erano fabbricati con materiali originari del pianeta. Non volevamo introdurre niente di alieno all’infuori di noi stessi.

Da ultimo, avevo un medaglione appeso a una catena di metallo grigio. Il medaglione era di metallo, piatto e scuro, con inseriti dei pezzi di vetro. Era un registratore audiovisivo, e quasi indistruttibile, così mi era stato detto. Qualunque cosa mi fosse successa, sarebbe sopravvissuto.

Sbarcai su una spiaggia, in prossimità di una fila di dune. Erano alte e spoglie, di un colore rosa arancione.


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