—  Tu lo credi?

—  L’ho sempre creduto.

—  Lo credi anche ora?

Lei non disse nulla.

Ancora una volta, scese tra loro il silenzio carico d’ombre. Dopo molto tempo, lei disse: — Parlami… parlami dei draghi che vivono a occidente.

—  Tenar, cosa vuoi fare? Non possiamo rimanere qui a raccontarci storie fino a quando la candela si consumerà completamente e ritornerà la tenebra.

—  Non so cosa fare. Ho paura. — Lei sedeva eretta sul cofano di pietra, con le mani strette convulsamente una nell’altra, e parlava a voce alta, sofferente. Disse: — Ho paura dell’oscurità.

Lui replicò a bassa voce: — Devi compiere una scelta. O mi lasci, chiudi la porta, risali ai tuoi altari e mi consegni ai tuoi Padroni, e poi vai dalla sacerdotessa Kossil e ti riconcili con lei… e tutto finisce. Oppure apri la porta e ne esci insieme a me. Lasci le Tombe, lasci Atuan, e vieni con me oltremare. E tutto incomincia. Devi essere Arha o Tenar. Non puoi essere l’una e l’altra.

La sua voce profonda era gentile e sicura. Lei guardò attraverso le ombre quel volto, che era duro e sfigurato ma che non esprimeva crudeltà né inganno.

—  Se lascio il servizio dei Tenebrosi, loro mi uccideranno. Se lascio questo luogo, morirò.

—  Non morirai. Morirà Arha.

—  Non posso…

—  Per rinascere bisogna morire, Tenar. Non è tanto difficile come sembra, quando si guarda dall’altra parte.

—  Loro non mi lascerebbero uscire. Mai.

—  Forse no. Tuttavia vale la pena di tentare. Tu possiedi la conoscenza e io possiedo l’arte, e io e te abbiamo… — Lui indugiò.

—  L’Anello di Erreth-Akbe.

—  Sì, l’Anello. Ma io pensavo anche a una cosa che esiste tra noi. Chiamala fiducia… È uno dei suoi nomi. È una cosa molto grande. Sebbene ognuno di noi, da solo, sia debole, insieme siamo forti, più forti delle Potenze delle Tenebre. — Gli occhi dell’uomo erano limpidi e fulgidi nel volto sfigurato. — Ascolta, Tenar! — disse. — Sono venuto qui come un ladro, un nemico, armato contro di te; e tu hai avuto misericordia, e ti sei fidata di me. E io mi sono fidato di te fin dalla prima volta che ho scorto il tuo volto, per un momento, nelle grotte sotto le tombe, bellissimo nell’oscurità. Tu hai dimostrato di avere fiducia in me. Io non ti ho ricambiata. Ti darò ciò che ho da dare. Il mio vero nome è Ged. E questo è tuo, perché tu lo tenga. — Si era alzato: le porse un semicerchio d’argento scolpito e traforato. — Ricongiungiamo l’anello — disse.

Lei lo prese. Si sfilò dal collo la catena d’argento cui era appesa l’altra metà, e la staccò. Posò i due pezzi nel palmo della mano, in modo che gli orli frantumati si toccassero, e l’Anello sembrò intatto.

Non alzò il volto.

—  Verrò con te — disse.

L’IRA DELLE TENEBRE

Quando lei pronunciò quelle parole, l’uomo di nome Ged posò la mano sulla sua che teneva il talismano spezzato. Lei alzò gli occhi, sgomenta e lo vide sorridere e avvampare di vita e di trionfo. Ebbe paura di lui. — Tu ci hai liberati entrambi — disse l’uomo. — Da solo, nessuno conquista la libertà. Vieni: non sprechiamo tempo, finché ne abbiamo ancora! Reggi ancora l’Anello per un attimo. — Lei aveva serrato le dita sui due pezzi d’argento, ma quando l’uomo glielo chiese le riaprì mostrando sul palmo le due metà con gli orli spezzati che si toccavano.

Lui non li prese, ma vi posò sopra le dita. Pronunciò un paio di parole, e il sudore sgorgò all’improvviso sul suo volto. Lei sentì un lieve tremito sul palmo della mano, come se un animaletto addormentato si fosse mosso nel sonno. Ged sospirò; la sua tensione si allentò, e lui si terse la fronte.

—  Ecco — disse. Prese l’Anello di Erreth-Akbe e lo fece scivolare sopra le dita della mano destra di Tenar e oltre la mano fino al polso. — Ecco! — Lo guardò, soddisfatto. — Calza perfettamente. Dev’essere un bracciale da donna, o da bambino.

—  Rimarrà saldato? — mormorò lei, nervosamente, mentre la fascia d’argento scivolava, fredda e delicata, sul suo braccio snello.

—  Sì. Non potevo gettare un semplice incantesimo di saldatura sull’Anello di Erreth-Akbe, come una strega di villaggio che aggiusta un bricco. Ho dovuto usare un Modellamento, e renderlo di nuovo intatto. Adesso è come se non si fosse mai spezzato. Tenar, dobbiamo andare. Io prendo il sacco e la borraccia. Indossa il tuo mantello. Non c’è altro?

Mentre lei armeggiava con la serratura, Ged le disse: — Vorrei avere il mio bastone. — E lei rispose, sussurrando: — È qui appena fuori. L’ho portato io.

—  Perché? — chiese lui, incuriosito.

—  Pensavo di… di condurti alla porta. Di lasciarti andare.

—  Era una scelta che non potevi compiere. Potevi tenermi come schiavo, e essere schiava anche tu; oppure liberarmi, e liberarti insieme a me. Su, piccola: fatti coraggio, gira la chiave.

Lei girò la chiave con l’asta a forma di drago e aprì la porta che dava sul basso corridoio nero. Uscì dal Tesoro delle Tombe con l’Anello di Erreth-Akbe al braccio, e l’uomo la seguì.

Ci fu una vibrazione cupa, che non era esattamente un suono, nella roccia delle pareti e del pavimento e della volta. Era come un tuono lontano, come qualcosa d’immenso che precipitasse a grande distanza.

Lei si sentì rizzare i capelli in testa: senza indugiare a riflettere, spense la candela nella lanterna di stagno. Udì l’uomo muoversi alle sue spalle, e la voce sommessa dire, così vicina che il respiro di lui le smosse i capelli: — Lascia la lanterna. Posso far luce io, se è necessario. Che ora è, fuori?

—  Era passata da molto la mezzanotte, quando sono venuta qui.

—  Allora dobbiamo andare avanti.

Ma non si mosse. Lei comprese che doveva guidarlo. Lei sola conosceva la via per uscire dal labirinto, e l’uomo attendeva per seguirla. Si avviò, chinandosi perché lì la galleria era molto bassa, ma camminò a passo piuttosto svelto. Dalle invisibili gallerie laterali uscivano un soffio freddo e un odore umido e pungente, l’odore senza vita dell’immensa cavità sottostante. Quando il passaggio divenne un po’ più alto, e lei poté procedere eretta, rallentò, contando i passi via via che si avvicinavano all’abisso. Leggero, conscio di ogni movimento di lei, l’uomo la seguiva a pochi passi di distanza. Nell’attimo in cui lei si fermò, si arrestò a sua volta.

—  Ecco l’abisso — mormorò Tenar. — Non riesco a trovare il cornicione. No, è qui. Sii prudente, credo che le pietre stiano per staccarsi… No, no, aspetta… si stanno staccando… — Arretrò, con cautela, mentre le pietre oscillavano sotto i suoi piedi. L’uomo le afferrò il braccio e la sostenne. Il cuore le batteva forte. — Il cornicione non è sicuro, le pietre si sono smosse.

—  Accenderò una luce, e le vedremo. Forse potrò rinsaldarle con la parola giusta. Tutto bene, piccola.

Lei pensò che era strano; l’uomo la chiamava come l’aveva sempre chiamata Manan. E quando lui accese un fioco barlume sulla sommità del bastone, come il chiarore del legno putrido o di una stella dietro la nebbia, e si avventurò sulla stretta cengia a fianco dell’abisso nero, lei vide la massa scura che giganteggiava nell’oscurità più lontana, oltre l’uomo, e comprese che era Manan. Ma si sentì la voce strozzata nella gola come in un cappio, e non riuscì a gridare.

Quando Manan allungò le braccia per spingerlo giù, nell’abisso, Ged alzò gli occhi, lo vide, e con un grido di sorpresa o di rabbia gli sferrò un colpo di bastone. Al grido, la luce sfolgorò bianca e abbacinante in faccia all’eunuco. Manan alzò una delle grosse mani per ripararsi il volto, si avventò disperatamente per afferrare Ged, lo mancò e cadde.

Non lanciò neppure un grido, mentre precipitava. Neppure un suono salì dal nero abisso, neppure il suono del corpo che toccava il fondo, il suono della sua morte, nulla. Aggrappandosi precariamente all’orlo, inginocchiati, Ged e Tenar non si mossero: ascoltarono, e non udirono nulla.


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