La luce era un grigio fuoco fatuo, appena visibile.

—  Vieni! — disse Ged, tendendo la mano; lei l’afferrò, e in tre passi arditi lui la condusse oltre il precipizio. Spense la luce. Lei riprese a precederlo per guidarlo. Era stordita, e non pensava a nulla. Soltanto dopo un poco si chiese: A destra o a sinistra?

Si fermò.

Arrestandosi qualche passo più indietro, lui chiese, sottovoce: — Cosa c’è?

—  Mi sono perduta. Fa’ luce.

—  Perduta?

—  Ho… ho perso il conto delle svolte.

—  Il conto l’ho tenuto io — disse Ged, facendosi un poco più vicino. — Una svolta a sinistra, dopo l’abisso; poi una a destra, e ancora una a destra.

—  Allora la prossima sarà di nuovo a destra — disse automaticamente Tenar, ma non si mosse. — Fa’ luce.

—  La luce non ci mostrerà la via, Tenar.

—  Nulla ce la mostrerà. È perduta. Siamo perduti.

Il silenzio di morte si chiuse sul suo mormorio, l’assorbì.

Sentiva il movimento e il calore dell’altro, vicino a lei nella fredda tenebra. Ged cercò la sua mano e la strinse. — Continua, Tenar. La prossima svolta è a destra.

—  Fa’ luce — lo supplicò lei. — Le gallerie sono così tortuose…

—  Non posso. Non ho forza da sprecare, Tenar, loro sono… Sanno che abbiamo lasciato il Tesoro. Sanno che abbiamo superato l’abisso. Ci stanno cercando: cercano la nostra volontà, il nostro spirito. Per soffocarlo, per divorarlo. È questo che io devo mantenere acceso. Vi impegno tutta la mia forza. Devo oppormi a loro; insieme a te. Col tuo aiuto. Dobbiamo proseguire.

—  Non c’è via d’uscita — disse lei, ma avanzò di un passo. Poi ne mosse un altro, esitante come se sotto i suoi piedi si spalancasse il vuoto nero e cavernoso, il vuoto sotto la terra. La stretta calda e dura della mano di lui le serrava la mano. Avanzarono.

Dopo un tempo che sembrò lunghissimo giunsero alla scala. Non era parsa tanto ripida, prima: i gradini erano poco più di sdrucciolevoli intaccature nella roccia. Ma la salirono, e poi procedettero un po’ più rapidamente perché lei sapeva che dopo la scala il corridoio curvilineo proseguiva per un lungo tratto senza svoltare. Le sue dita, che sfioravano la parete di sinistra, trovarono un varco, un’apertura. — Qui — mormorò; ma lui parve indugiare, come se qualcosa, nei movimenti di Tenar, lo rendesse dubbioso.

—  No — mormorò lei, confusa. — Non è questa; è la prossima svolta a sinistra. Non so. Non ci riesco. Non c’è via d’uscita.

—  Stiamo andando alla Camera Dipinta — disse la voce quieta, nella tenebra. — Come dobbiamo arrivarci?

—  La svolta a sinistra dopo questa.

Tenar proseguì. Percorsero il lungo giro, superando due false piste, fino al passaggio che si diramava verso destra, in direzione della Camera Dipinta.

—  Avanti diritto — bisbigliò lei; adesso era più facile distrincarsi nella tenebra, perché conosceva i passaggi che conducevano alla porta di ferro e ne aveva contato le svolte tanto spesso; lo strano peso che le opprimeva la mente non poteva confonderla, se non cercava di pensare. Ma continuavano ad avvicinarsi a ciò che l’opprimeva e la schiacciava; e si sentiva le gambe così stanche e appesantite che un paio di volte gemette per lo sforzo di muoverle. E accanto a lei l’uomo respirava profondamente, e tratteneva il fiato, più e più volte, come se compisse uno sforzo enorme con tutte le energie che aveva in corpo. Talvolta la sua voce prorompeva, smorzata e tagliente, in una parola, o in un frammento di parola. Giunsero finalmente alla porta di ferro; e con un terrore improvviso, Tenar tese la mano.

La porta era aperta.

—  Presto! — disse lei, trascinando dietro di sé il compagno. Poi, dall’altra parte, si fermò.

—  Perché era aperta? — chiese.

—  Perché i tuoi Padroni hanno bisogno delle tue mani per chiuderla.

—  Stiamo per giungere a… — La voce le mancò.

—  Al centro della tenebra. Lo so. Comunque siamo usciti dal labirinto. Quali uscite dalla cripta ci sono?

—  Una soltanto. La porta da cui sei entrato tu non si apre dall’interno. Il percorso attraversa la caverna e segue altri passaggi fino a una botola dietro il trono. Nel palazzo del trono.

—  Allora dobbiamo andare da quella parte.

—  Ma là c’è lei — bisbigliò la ragazza. — Là nella cripta. Nella caverna. Sta scavando la tomba vuota. Non posso passarle accanto, oh, non posso passarle accanto di nuovo!

—  Ormai se ne sarà andata.

—  Non posso andare là.

—  Tenar, in questo momento io sto reggendo il soffitto sopra le nostre teste. Impedisco alle pareti di crollarci addosso, al pavimento di spalancarsi sotto i nostri piedi. Continuo a farlo dal momento in cui abbiamo superato l’abisso dove attendeva il tuo servitore. Se io posso tenere a bada il terremoto, tu hai paura d’incontrare un’anima umana insieme a me? Fidati di me, come io mi sono fidato di te! Vieni, adesso.

Proseguirono. L’interminabile galleria si allargò. Sentirono l’aria più vasta, la tenebra che si schiudeva. Erano entrati nella grande caverna, sotto le Pietre Tombali.

Incominciarono ad aggirarla, tenendosi rasente alla parete di destra. Tenar aveva percorso solo pochi passi quando si fermò. — Cos’è? — mormorò, e la voce superò appena le sue labbra. C’era un rumore nella morta, immensa, nera bolla d’aria: un tremore, un suono che si udiva nel sangue, si sentiva nelle ossa. Le pareti scavate dal tempo vibravano, vibravano sotto le sue dita.

—  Va’ avanti — disse la voce dell’uomo, secca e forzata. — Affrettati, Tenar.

E mentre avanzava vacillando, lei gridava nella mente, che era tenebrosa e scossa come la cripta sotterranea: — Perdonatemi. Oh miei Padroni, oh Senza Nome, oh antichissimi, perdonatemi, perdonatemi!

Non ebbe risposta. Non aveva mai avuto risposta.

Raggiunsero il corridoio sotto il Palazzo, salirono la scala, pervennero agli ultimi gradini e alla botola. Era chiusa, come lei la lasciava sempre. Premette la molla che l’apriva. Non si aprì.

—  È rotta — disse. — È bloccata.

Ged le passò accanto e premette con le spalle contro la botola. La botola non si mosse.

—  Non è chiusa a chiave: è bloccata da qualcosa di molto pesante.

—  Puoi aprirla?

—  Forse. Credo che lei stia aspettando lì fuori. Ha qualche uomo con sé?

—  Duby e Uahto, forse altri guardiani: gli uomini non possono entrare…

—  Non posso operare un incantesimo di apertura e contemporaneamente tenere a bada quelli che attendono là fuori e resistere alla volontà delle tenebre — disse la voce ferma e pensierosa di Ged. — Allora dobbiamo provare l’altra porta, la porta nelle rocce, quella da cui sono entrato. Lei sa che non si può aprire dall’interno?

—  Lo sa. Una volta ha lasciato che io tentassi.

—  Allora forse non se ne preoccuperà. Vieni. Vieni, Tenar!

Lei si era accasciata sui gradini di pietra, che vibravano e fremevano come se la corda di un enorme arco venisse tesa nelle immensità sotto di loro.

—  Cos’è… questa vibrazione?

—  Vieni — disse Ged, con tanta fermezza che lei ubbidì e ridiscese strisciando i passaggi e le scale fino alla spaventosa caverna.

All’ingresso si sentì opprimere da un così gran peso di odio cieco e tremendo, come il peso stesso della terra, che arretrò e senza rendersene conto gridò: — Loro sono qui! Sono qui!

—  E allora facciamogli sapere che siamo qui anche noi — disse l’uomo; e dal bastone e dalle sue mani scaturì un bagliore bianco che s’infranse contro i mille diamanti della volta e delle pareti come un’onda del mare s’infrange nel sole: un fulgore di luce nel quale i due fuggirono attraversando la grande caverna, mentre le loro ombre correvano lontane sulle trine bianche e sulle fenditure scintillanti e sulla fossa aperta e vuota. Corsero verso la bassa apertura, lungo la galleria, chinandosi, prima lei e poi lui. Nel corridoio le rocce tuonavano e si muovevano sotto i loro piedi. Eppure la luce era ancora con loro, abbagliante. Quando Tenar vide davanti a sé la morta parete di roccia, udì più forte del rombo della terra la voce di Ged pronunciare una parola; e mentre lei crollava in ginocchio, il bastone colpì al di sopra della sua testa la rossa roccia della porta chiusa. Le rocce arsero bianche, e si squarciarono.


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