Ai piedi dell’uomo risplendente stava accovacciata una forma scura.

Arren tentò di parlare, senza riuscirvi. Abbigliato della maestà della luce, l’arcimago gli si avvicinò e s’inginocchiò sul ponte. Arren sentì il tocco della sua mano, udì la sua voce. Sentì le strisce di ferro ai polsi e alla vita cedere: in tutta la stiva vi fu un tintinnio di catene. Ma nessuno si mosse. Soltanto Arren cercò di alzarsi; ma non vi riuscì, intorpidito com’era dalla lunga immobilità. La forte mano dell’arcimago gli strinse il braccio; con quell’aiuto, uscì dalla stiva e si rannicchiò sul ponte.

L’arcimago si allontanò da lui, e lo splendore nebuloso brillò sulle immobili facce dei rematori. Si arrestò accanto all’uomo che stava accovacciato vicino al parapetto di babordo.

—  Io non punisco — disse la voce chiara e dura, fredda come la fredda luce incantata nella nebbia. — Ma in nome della giustizia, Egre, io mi assumo questa responsabilità: comando alla tua voce di tacere fino al giorno in cui troverai una parola degna di essere pronunciata.

Ritornò da Arren e l’aiutò ad alzarsi in piedi. — Adesso vieni, ragazzo — disse; e Arren, sorretto da lui, riuscì ad avanzare barcollando e a lasciarsi cadere nella barca che ondeggiava sotto la fiancata della nave: la Vistacuta, con la vela che spiccava nella nebbia come l’ala di una falena.

Nello stesso silenzio, nella stessa calma morta, la luce si estinse, e la barca virò e si allontanò dalla fiancata della nave. Quasi immediatamente la galea, la fioca lanterna appesa all’albero maestro, i rematori immobili, la nera fiancata incombente, scomparvero. Arren credette di udire voci che prorompevano in grida, ma era un suono troppo esile e subito si perse. Dopo un poco, la nebbia cominciò a diradarsi e a disperdersi nel buio. Emersero le stelle; e silenziosa come una farfalla, la Vistacuta volò nella notte chiara, sul mare.

Sparviero aveva avviluppato Arren nelle coperte e gli aveva dato acqua da bere; era seduto, con la mano sulla spalla del ragazzo, quando quest’ultimo scoppiò improvvisamente a piangere. Sparviero non disse nulla, ma c’era una gentile fermezza nel contatto della sua mano. Lentamente, Arren si sentì confortato: il calore, il leggero movimento della barca, la serenità del cuore.

Alzò gli occhi verso il compagno. Non c’era più il fulgore ultraterreno intorno al volto scuro. Riusciva a malapena a distinguerlo contro lo sfondo delle stelle.

La barca continuava a volare, guidata dall’incantesimo. Le onde mormoravano contro le sue fiancate, quasi stupite.

—  Chi è l’uomo dal collare?

—  Sta’ calmo. Un predone del mare, Egre. Porta quel collare per nascondere una cicatrice, un taglio alla gola. Sembra che abbia cambiato mestiere, passando dalla pirateria al commercio degli schiavi. Ma questa volta ha catturato il cucciolo d’orso. — C’era un’eco di soddisfazione nella voce quieta e asciutta.

—  Come mi hai trovato?

—  Magia, corruzione… Ho perso tempo. Non volevo che si risapesse che l’arcimago, il Custode di Roke, si aggirava come un furetto tra le catapecchie di Città Hort. Avrei voluto conservare ancora il mio travestimento. Ma dovevo rintracciare quest’uomo e quello, e quando finalmente ho scoperto che il mercante di schiavi era salpato prima del levar del sole ho perso la calma. Ho preso la Vistacuta e ho pronunciato la parola che ha portato il vento nella sua vela, con la bonaccia, e ho inchiodato agli scalmi i remi di tutte le navi in quella baia: per un po’, almeno. Come lo spiegheranno, se la magia è solo aria e menzogna, è affar loro. Ma nella fretta e nella collera ho superato la nave di Egre senza vederla: si era spinta a sudest per evitare gli scogli. Non ho fatto altro che sbagliare per tutta la giornata. Non c’è fortuna, a Città Hort… Be’, alla fine ho lanciato un incantesimo di ritrovamento, e così mi sono avvicinato alla nave nell’oscurità. Ma adesso non sarebbe meglio che tu dormissi?

—  No, adesso mi sento molto meglio. — Una febbre leggera aveva preso il posto del freddo, e adesso Arren si sentiva veramente bene; fisicamente era illanguidito, ma la sua mente sfrecciava rapida da un pensiero all’altro. — Quando ti sei svegliato? Che fine ha fatto Lepre?

—  Mi sono svegliato allo spuntar del giorno: e fortuna che ho la testa dura: dietro l’orecchio ho un bernoccolo e un taglio come un cocomero spaccato. Ho lasciato Lepre immerso nel sonno della droga.

—  Non ho fatto la guardia come dovevo…

—  Ma non perché ti eri addormentato.

—  No. — Arren esitò. — Era… ero…

—  Mi avevi preceduto: ti ho visto — disse stranamente Sparviero. — E così quelli sono entrati e ci hanno colpiti alla testa come agnelli, hanno preso l’oro, gli abiti buoni, lo schiavo vendibile, e se ne sono andati. È te che volevano, ragazzo. Avresti spuntato il prezzo di una fattoria, al Mercato di Amrun.

—  Non mi hanno dato una botta abbastanza forte. Mi sono svegliato. Li ho costretti a inseguirmi. Ho sparpagliato il loro bottino per la strada, prima che mi bloccassero. — Gli occhi di Arren scintillavano.

—  Ti sei svegliato mentre c’erano loro… e sei fuggito? Perché?

—  Per allontanarli da te. — Lo stupore del tono di Sparviero colpì Arren nel suo orgoglio; aggiunse, risentito: — Pensavo che cercassero te. Pensavo che intendessero ucciderti. Ho afferrato la loro borsa, perché m’inseguissero, e sono fuggito. E loro mi hanno seguito.

—  Sì… era logico che lo facessero. — Sparviero non disse altro: non una parola di elogio, sebbene rimanesse seduto a riflettere per qualche istante. — Non hai pensato che io potevo essere già morto?

—  No.

—  Prima uccidi e poi ruba: è il sistema più sicuro.

—  Non ci avevo pensato. Ho pensato soltanto ad allontanarli da te.

—  Perché?

—  Perché tu avresti potuto difenderci entrambi, tirarci fuori dai guai, se avessi avuto il tempo di svegliarti. O almeno, tirar fuori dai guai te stesso. Io ero di guardia, e non ho fatto il mio dovere. Così, ho cercato di rimediare. Eri tu, quello che dovevo proteggere. Tu sei l’unico che conta. Ti accompagno per difenderti, o per servirti secondo le tue necessità: sei tu a guidarci, sei tu quello che può giungere dove dobbiamo andare e raddrizzare ciò che non va.

—  Davvero? — ribatté il mago. — Anch’io la pensavo così, fino all’altra notte. Pensavo di avere un seguace, ma invece ho seguito te. — Il suo tono era sereno, forse un po’ ironico. Arren non seppe ribattere. Era completamente confuso. Aveva pensato che difficilmente la sua colpa di essersi abbandonato al sonno o alla trance mentre stava di guardia sarebbe stata espiata dalla prodezza con cui aveva allontanato i predoni da Sparviero; ma adesso sembrava che il suo fosse stato un gesto sciocco, mentre andare in trance al momento sbagliato era stato straordinariamente opportuno.

—  Mi dispiace, mio signore — disse infine, con le labbra irrigidite, dominando a stento l’impulso di piangere. — Ti ho deluso. E tu mi hai salvato la vita…

—  E tu, forse, hai salvato la vita a me — replicò il mago, bruscamente. — Chissà? Forse mi avrebbero tagliato la gola, dopo aver finito. Non parliamone più, Arren. Sono lieto di averti con me.

Poi andò alla cassa, accese la piccola stufa a carbone dolce, e cominciò a darsi da fare. Arren rimase sdraiato a guardare le stelle; e le sue emozioni si placarono, la sua mente smise di turbinare. E allora comprese che quanto aveva fatto e non aveva fatto non sarebbe stato giudicato da Sparviero. L’aveva fatto: Sparviero l’accettava come realtà. «Io non punisco» aveva detto a Egre, con voce fredda. E non ricompensava. Ma era venuto in tutta fretta a cercarlo attraverso il mare, scatenando il potere della sua magia per salvarlo; e l’avrebbe fatto ancora. Meritava tutto l’amore che Arren provava per lui, e tutta la fiducia. Perché si era fidato di Arren. Ciò che Arren faceva, era giusto.

Poi l’arcimago ritornò e gli porse una ciotola di vino fumante. — Forse questo ti farà dormire. Sta’ attento, se no ti scotti la lingua.


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