—  Da dove viene? A bordo non ho mai visto un solo otre di vino…

—  Sulla Vistacuta c’è molto più di quanto si vede — disse Sparviero, sedendosi di nuovo accanto a lui; e Arren lo sentì ridere, brevemente e quasi silenziosamente, nell’oscurità.

Si levò a sedere, per bere il vino. Era delizioso, e ristorava il corpo e lo spirito. Arren chiese: — Adesso dove andiamo?

—  Verso occidente.

—  Dove sei andato, con Lepre?

—  Nella tenebra. Io non l’ho mai perso, ma lui era perduto. Vagava ai confini esterni, nell’interminabile deserto del delirio e dell’incubo. La sua anima pigolava come un uccello in quei luoghi squallidi, come un gabbiano che grida lontano dal mare. Lui non è una guida: è sempre stato perduto. Nonostante la sua arte magica, non ha mai visto la via davanti a sé: vedeva solo se stesso.

Arren non comprendeva completamente quelle parole, e adesso non voleva neanche capire. Era stato attirato per un breve tratto in quella «tenebra» di cui parlavano i maghi, e non voleva ricordarla: non aveva nulla in comune con lui. E non voleva dormire, per non rivederla in sogno, per non scorgere quella figura cupa, quell’ombra che protendeva una perla e sussurrava «Vieni».

—  Mio signore — cominciò, mentre la sua mente virava rapida verso un altro pensiero, — perché…

—  Dormi! — disse Sparviero, con blanda esasperazione.

—  Non posso dormire, mio signore. Mi sto chiedendo perché non hai liberato gli altri schiavi.

—  L’ho fatto. Non ho lasciato nessuno incatenato, a bordo di quella nave.

—  Ma gli uomini di Egre erano armati. Se avessi incatenato loro…

—  Sì, se li avessi incatenati? Erano soltanto sei. I rematori erano schiavi alla catena, come te. A quest’ora Egre e i suoi uomini possono essere morti, o incatenati dagli altri per finire venduti come schiavi: ma li ho lasciati liberi di combattere o di mercanteggiare. Io non faccio schiavi.

—  Ma sapevi che erano uomini malvagi…

—  E perciò dovevo comportarmi come loro? Lasciare che le loro azioni condizionassero le mie? Non sarò io a scegliere per loro, e non permetterò che scelgano per me!

Arren rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Dopo un po’, il mago disse, con voce lieve: — Vedi, Arren: contrariamente a quanto pensano i giovani, un’azione non è un sasso che si raccoglie e si scaglia e che colpisce il bersaglio o lo manca e tutto finisce lì. Quando quel sasso viene sollevato, la terra è più leggera; la mano che lo stringe è più pesante. Quando viene lanciato, i circuiti delle stelle reagiscono, e dove colpisce o cade, l’universo cambia. Da ogni azione dipende l’equilibrio del tutto. I venti e i mari, le potenze dell’acqua e della terra e della luce, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che fanno le bestie e le piante, è ben fatto, e fatto giustamente. Tutti agiscono nell’ambito dell’Equilibrio. Dall’uragano, dall’immersione di una grande balena, fino alla caduta di una foglia secca e al volo di un moscerino, tutto ciò che viene fatto viene fatto nell’ambito dell’equilibrio del tutto. Ma noi, poiché abbiamo potere sul mondo e l’uno sull’altro, dobbiamo imparare a fare ciò che la foglia e la balena e il vento fanno per loro natura. Dobbiamo imparare a mantenere l’equilibrio. Poiché abbiamo l’intelligenza, non dobbiamo agire nell’ignoranza. Poiché possiamo scegliere, non possiamo agire senza responsabilità. Chi sono io, anche se ho il potere di farlo, per punire e ricompensare, giocando col destino degli uomini?

—  Ma allora — disse il ragazzo, guardando le stelle con la fronte aggrondata, — l’equilibrio si conserva non facendo nulla? Senza dubbio, un uomo deve agire, anche se non conosce tutte le conseguenze del suo atto, se si deve fare qualcosa.

—  Non temere. Per gli uomini, agire è assai più facile che astenersi dall’azione. Continueremo a fare il bene e a fare il male… Ma se ci fosse di nuovo un re, al di sopra di tutti noi, e se chiedesse il consiglio di un mago come avveniva nell’antichità, e io fossi quel mago, gli direi: mio signore, non fare mai qualcosa perché è giusto o lodevole o generoso farlo; non fare qualcosa perché ti sembra bene farlo; fa’ solo ciò che devi fare, e che non puoi fare in altro modo.

Il tono di voce indusse Arren a voltarsi a scrutarlo, mentre parlava. Gli parve che lo splendore della luce s’irradiasse di nuovo da quel volto: vide il naso aquilino, la guancia sfregiata, gli occhi scuri e ardenti. E lo guardò con amore ma anche con paura, pensando: è troppo al di sopra di me. Eppure, mentre lo guardava, si accorgeva finalmente che sulle linee e sui piani del volto di quell’uomo non c’era la luce incantata, non c’era il freddo splendore della magia, ma c’era la luce stessa: il mattino, la normale luce del giorno. C’era un potere più grande di quello del mago. E gli anni non erano stati generosi con Sparviero più che con qualunque altro uomo. Il suo volto recava i segni dell’età, e aveva l’aria stanca, via via che la luce si rafforzava. Arren sbadigliò…

E così, mentre guardava e rifletteva, finalmente si addormentò. Ma Sparviero restò seduto accanto a lui, a guardare l’alba che spuntava e il sole che sorgeva, come se scrutasse un tesoro alla ricerca di qualche oggetto smarrito, una gemma difettosa, un bambino malato.

SOGNI SUL MARE

A mattino inoltrato, Sparviero tolse dalla vela il vento magico e lasciò che la barca procedesse spinta dal vento del mondo, che spirava dolce da sudovest. Lontano, sulla destra, le colline della distante Wathort slittavano via e rimanevano indietro, diventando azzurre e minuscole, come onde nebbiose al di sopra delle onde.

Arren si svegliò. Il mare si crogiolava nel caldo meriggio dorato, acqua infinita sotto una luce infinita. A poppa, Sparviero sedeva nudo: portava solo un perizoma e una specie di turbante fatto con tela da vele. Canterellava a mezza voce, accarezzando la fiancata come se fosse un tamburo, in un ritmo lieve e monotono. Il suo canto non era un incantesimo magico, né narrava le gesta degli eroi o dei re, ma una nenia di parole prive di senso, come potrebbe cantilenare un ragazzo mentre bada alle capre in un lungo pomeriggio d’estate, da solo sulle alte colline di Gont.

Dalla superficie del mare balzò un pesce, che planò nell’aria per molte braccia tendendo le pinne rigide e scintillanti, simili ad ali di libellula.

—  Siamo nello Stretto Meridionale — disse Sparviero, quando ebbe concluso il canto. — Una parte molto strana del mondo, dove i pesci volano e i delfini cantano, si dice. Ma l’acqua è tiepida, per nuotare, e io ho un’intesa con gli squali. Fa’ il bagno, per toglierti da dosso il contatto dei mercanti di schiavi.

Arren aveva tutti i muscoli intormentiti, e avrebbe preferito non muoversi. Inoltre non era un nuotatore esperto, perché i mari di Enlad sono turbolenti e bisogna lottare con le acque anziché nuotarvi, e ci si sfinisce presto. Quel mare più azzurro era freddo, al primo momento, ma poi diventò delizioso. L’indolenzimento l’abbandonò. Arren sguazzò accanto alla fiancata della Vistacuta come un giovane serpente di mare. Gli spruzzi zampillavano come fontane. Sparviero lo raggiunse, nuotando a bracciate più decise. Docile e protettiva, la Vistacuta li attendeva, con la sua ala bianca sull’acqua lucente. Un pesce balzò in aria dal mare: Arren l’inseguì; il pesce si tuffò e balzò di nuovo fuori, nuotando nell’aria, volando nel mare, inseguendo lui.

Agile e dorato, il ragazzo giocò e si crogiolò nell’acqua e nella luce fino a quando il sole toccò il mare. E, scuro e magro, con l’economia di gesti e la sobria forza dell’età, l’uomo nuotò, e tenne in rotta la barca, e montò un tendone di tela da vele, e guardò con imparziale tenerezza il ragazzo che nuotava e il pesce volante.

—  Dove siamo diretti? — chiese Arren nel crepuscolo inoltrato, dopo un abbondante pasto di carne salata e di pane duro, di nuovo insonnolito.


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