Non entrerò nei particolari di ciò che accadde nell’interminabile periodo seguente. Se avete immaginazione, vi darebbe la nausea, e parlarne mi fa venire voglia di vomitare. Infatti vomitai, diverse volte. Persi anche conoscenza, ma quelli continuarono a farmi rinvenire, e la voce continuò a interrogarmi.
A quanto sembra, a un certo punto io smisi di rinvenire, perché dopo un po’ ero di nuovo a letto (lo stesso letto, immagino) ed ero ancora ammanettata. Il mio corpo era un dolore unico.
Di nuovo quella voce, dritta sopra la mia testa. — Signorina Friday?
— Che diavolo vuoi?
— Niente. Se questo può consolarti, cara ragazza, tu sei l’unico soggetto che io abbia mai interrogato senza riuscire ad arrivare alla verità.
— Vai a rilassarti!
— Buonanotte, tesoro.
Maledetto dilettante! Ogni singola parola che gli avevo detto era la verità.
3
Qualcuno entrò e mi fece un’altra iniezione. Il dolore svanì, e mi addormentai.
Devo aver dormito a lungo. Ebbi sogni confusi, oppure periodi di semi-veglia, o tutte e due le cose. Almeno in parte dovette trattarsi di sogni: i cani, molti cani, parlano, però non tengono concioni sui diritti delle creature sintetiche viventi, giusto? I rumori di un tafferuglio e di gente che correva su e giù potrebbero essere stati veri. Ma a me parve tutto un incubo perché cercai di scendere dal letto e scoprii che non potevo nemmeno sollevare la testa, tanto meno alzarmi e partecipare alla festa.
A un certo punto decisi che ero davvero sveglia, perché le manette non mi imprigionavano più i polsi e non avevo nastro adesivo sugli occhi. Però non saltai su, e neanche aprii gli occhi. Sapevo che i primi secondi subito dopo aver aperto gli occhi sarebbero stati l’occasione migliore, forse l’unica, di fuggire.
Contrassi i muscoli senza muovermi. Sembrava tutto sotto controllo, anche se ero molto più che indolenzita qua e là, e in diversi altri punti. I vestiti? Meglio lasciar perdere: non solo non avevo idea di dove potevano essere i miei abiti, ma per di più non c’è tempo da perdere a rivestirsi quando si scappa per salvare la pelle.
Un piano d’azione… Nella stanza sembrava non ci fosse nessuno; c’era qualcuno al primo piano? Stai calma e ascolta. Se e quando fossi stata ragionevolmente certa di essere sola a quel piano, sarei scesa senza far rumore dal letto e avrei salito le scale come un topolino, su fino al secondo piano, e poi in soffitta, a nascondermi. Ad aspettare il buio. Poi fuori dalla soffitta, sul tetto giù per il muro del retro, e nel bosco. Una volta fra gli alberi dietro casa, non mi avrebbero più presa… ma prima di arrivarci, sarei stata un bersaglio facile.
Le probabilità? Una su nove. Forse una su sette, se mi caricavo a dovere. Il punto più debole di un piano da due soldi era l’elevata probabilità di venire individuata prima di essere al largo dalla casa; perché se mi avessero individuata (no, quando mi avessero individuata) non solo avrei dovuto uccidere, ma sarei stata costretta a farlo nel più silenzioso dei modi… perché l’alternativa era aspettare che mi terminassero; il che sarebbe accaduto non appena «il Maggiore» fosse giunto alla conclusione che non poteva spremermi più nulla. Per quanto quei gorilla fossero maldestri, non erano tanto stupidi (o almeno il Maggiore non era tanto stupido) da risparmiare la vita a un prigioniero torturato e stuprato.
Tesi le orecchie in ogni direzione e ascoltai.
«Non si muoveva nulla, nemmeno un topolino.» Inutile aspettare; ogni momento di ritardo serviva solo ad avvicinare l’attimo in cui qualcuno si sarebbe mosso. Aprii gli occhi.
— Sveglia, vedo. Bene.
— Boss! Dove sono?
— Che cliché orribilmente datato. Friday, tu puoi fare di meglio. Fai marcia indietro e riprovaci.
Mi guardai attorno. Una camera da letto, forse una stanza d’ospedale. Niente finestre. Illuminazione senza riverbero. Il tipico silenzio tombale, sottolineato più che spezzato dagli esilissimi sospiri dell’impianto di aerazione.
Guardai di nuovo Boss. Uno spettacolo adorabile. La solita vecchia, rozza benda sull’occhio; perché non voleva trovare il tempo per farsi rigenerare l’occhio? I suoi bastoni erano appoggiati a un tavolo, a portata di mano. Indossava il solito completo trasandato di seta grezza, una specie di pigiama tagliato da un sarto inetto. Ero mostruosamente felice di vederlo.
— Voglio ancora sapere dove sono. E come ci sono arrivata. E perché. Un posto sottoterra, senza dubbio, ma dove?
— Sottoterra, infatti, e di parecchi metri. «Dove» lo saprai quando avrai bisogno di saperlo, o per lo meno ti diremo come andare e venire. È stato questo che ha distrutto la nostra fattoria. Un posto gradevole, ma erano in troppi a conoscerne la posizione. «Perché» è ovvio. «Come» può aspettare. Rapporto.
— Boss, sei l’uomo più esasperante che io conosca.
— Grazie alla mia lunga pratica. Rapporto.
— E tuo padre ha conosciuto tua madre in un locale malfamato. E non si è tolto il cappello.
— Si sono conosciuti a un picnic domenicale della chiesa battista e credevano tutti e due nella Buona Fatina dei Denti Caduti. Rapporto.
— Hai le orecchie luride e sei un porco. Il viaggio fino a Elle-Cinque si è svolto senza incidenti. Ho trovato il signor Mortenson e gli ho consegnato il contenuto del mio poliedrico ombelico. La normale routine è stata interrotta da un incidente molto insolito. La città spaziale era stata investita da un’epidemia di affezioni respiratorie di origine ignota, e io ho contratto la malattia. Il signor Mortenson è stato gentilissimo. Mi ha ospitata a casa sua e le sue mogli mi hanno curata con grande abilità e tenero affetto. Boss, voglio che siano ricompensate.
— Ho preso nota. Continua.
— Sono rimasta fuori di testa per quasi tutto il tempo. È per questo che sono finita in ritardo di una settimana. Ma appena sono tornata in condizioni di viaggiare, ho potuto ripartire immediatamente. Il signor Mortenson mi ha detto che avevo già addosso la merce per te. Come hanno fatto, Boss? Un’altra volta la tasca del mio ombelico?
— Sì e no.
— Bella risposta.
— La tua sacca artificiale è stata usata.
— Come pensavo. Non dovrebbero esserci terminazioni nervose, ma quando è piena sento qualcosa. Una sensazione di pressione, forse.
Premetti le mani sul ventre attorno all’ombelico e contrassi i muscoli. — Ehi, è vuota! L’avete svuotata voi?
— No. Sono stati i nostri antagonisti.
— Allora ho fallito! Dio, Boss, è mostruoso.
— No — disse dolcemente lui — sei riuscita nella missione. Di fronte a grandi pericoli e ostacoli monumentali, hai ottenuto un successo perfetto.
— Davvero? — (Vi hanno mai appuntato al petto la Croce della regina Vittoria?) — Boss, piantala coi discorsi ambigui e tracciami un diagramma.
— Sarà fatto.
Ma forse è meglio che un diagramma lo tracci prima io. Dietro l’ombelico ho una sacca artificiale, creata dalla chirurgia plastica. Non è grande, ma si possono infilare quantità gigantesche di microfilm in uno spazio di un centimetro cubo circa. La sacca non si vede perché lo sfintere che la comanda tiene chiusa la cicatrice. Il mio ombelico sembra perfettamente normale. Giudici imparziali mi dicono che ho una pancia graziosa e un ombelico avvenente… il che, per certi importanti versi, è meglio che avere un bel visino, cosa che non ho.
Lo sfintere è sintetico, di elastomero al silicone, e tiene chiuso l’ombelico in continuazione, anche quando io sono svenuta. La cosa è necessaria perché in quella zona non esistono nervi che permettano il controllo volontario di contrazione e rilassamento, come invece è possibile con lo sfintere dell’ano, della vagina, e, per certe persone, della gola. Per riempire la sacca usate un pizzico di gel K-Y o di altri lubrificanti privi di petrolio e introducete col pollice… Niente unghie appuntite, per favore! Per svuotarla, con le dita di entrambe le mani io stessa apro il più possibile lo sfintere artificiale, poi spingo al massimo coi muscoli addominali; e il contenuto dell’ombelico salta fuori.