— La Terra? A volte. — Lui fece una pausa. — Non credo nei rimpianti. Ci sono emozioni che ti intrappolano, che fanno finire la tua vita al punto in cui è arrivata e ti fanno rimpiangere che sia una sola. Preferisco stare in movimento, il che significa che cerco di pensare alla situazione in cui mi trovo proprio in questo momento e a cosa posso farne. — Guardò da sopra il bordo degli occhiali e sorrise. — Non credo poi nella sofferenza della solitudine. Mi mancano soprattutto le cose pratiche e normali. Lenti a contatto umane decenti. Il caffè. Ci sono giorni… ancora, dopo tutti questi anni… in cui penso che ucciderei per una tazza di caffè.

— A questo si può rimediare. — Anna si alzò, entrò nella cabina e chiese a Maria di preparare un bricco di caffè.

— Spero che tu sappia quello che fai, Anna — disse Maria.

— Forse. — Anna tornò fuori, si sedette e gli raccontò della sua ultima visita a New York, che non era cambiata molto dai tempi in cui l’aveva vista lui. Era ancora enorme, sporca, malandata e splendida. Come sempre, in fase di costruzione. Le mostruose torri di vetro del trascorso ventesimo secolo, folli divoratrici di energia, erano quasi tutte sparite. (Qualcuna era stata conservata come cimelio storico.) Lo stile architettonico più recente era Nostalgia dell’Età dell’Oro.

— Lo chiamano così? — domandò Nicholas.

Lei annuì. — Muri di mattoni e pietra. Pozzi di ventilazione. Finestre che si aprono. Doccioni.

— Che cos’ha fatto? Un giro architettonico?

Lei annuì di nuovo. — E un giro del sistema di dighe e di argini. Alla fine, hanno dovuto chiudere completamente il porto. Era l’unico modo per tenere l’oceano lontano dalla città. Il porto non esiste più.

— È un peccato.

Maria portò il caffè e lo posò, poi si mise sulla porta della cabina, ad ascoltare. Proveniva dall’America centrale ed era quasi un’indiana pura con la pelle color rame scuro e lunghi capelli neri, belli e dritti.

Anna gli raccontò degli spettacoli che aveva visto durante la visita. Sicuramente non c’era niente di strategico in La vendetta dell’Uomo Lupo o Misura per misura.

— Quello è uno spettacolo che non mi dispiacerebbe rivedere — osservò lui. — Ricorda il discorso che il duca fa a Claudio, quando quel povero pazzo è in prigione, condannato a morte per fornicazione? È quello che comincia con: "Sii perfetto per la morte". È un verso che suona meravigliosamente! E poi lui continua con un’argomentazione dopo l’altra sul perché non valga la pena continuare a vivere.

Ragiona perciò con la vita:

Se perdo te, perdo una cosa

Che nessuno se non un pazzo terrebbe.

"Che lingua meravigliosa! E che cumulo di stronzate!" Assaggiò il caffè. "Non è come me lo ricordo."

— Quello è caffè buono che arriva dal Nicaragua — spiegò Maria. — E io so come prepararlo.

Lui sollevò una mano, in un gesto di scusa. — È passato tanto tempo, signora. Sono sicuro d’averlo dimenticato.

— Per vent’anni ha ricordato quel passaggio di Shakespeare? — domandò Anna.

— No. I hwarhath hanno raccolto molti strani pezzettini di cultura umana, incluse tutte le commedie di William Shakespeare e molta letteratura cinese tradotta. Mi chiedo se questa sia un’informazione strategica. Le dice qualcosa di utile sui hwarhath sapere che non hanno mai avuto l’occasione di leggere Ibsen?

La conversazione continuò per un po’, poi sconfinò nella moda. Nicholas aveva soltanto un blando interesse in proposito, fatta eccezione per le nuove divise militari. Il che, disse, era qualcosa che lo affascinava. — E mi fa sentire contento d’aver cambiato parte. Per niente al mondo mi farei tagliare i capelli come Maksud.

Il soldato umano aggrottò la fronte.

— Fermiamoci alla nuova moda dei civili — disse Anna. — Non può essere di alcuna importanza strategica.

— Non è neppure attraente — commentò Maria. Aveva una rivista nella cabina della barca, non di moda ma di cultura popolare. — È sempre la stessa cosa, soprattutto al nord. Gli yankee hanno sempre avuto uno stile di vita confuso. Non hanno una vera politica o una vera religione.

— Da dove viene lei? — domandò Anna.

— Originariamente? Dal deserto. Il Kansas. Me ne sono andato non appena ho potuto. Ricordo d’aver letto, una volta, un’intervista a qualcuno… non ricordo chi… una scrittrice del Kansas. Diceva che da bambina amava Il Mago di Oz perché le diceva che era possibile andarsene dal Kansas. — Nicholas sorrise. — Mi è sempre piaciuta quella storia.

Maria andò a prendere la rivista. Nicholas l’accese, spostandosi leggermente perché lo schermo fosse in ombra. (Ma, questa volta, il sole era basso, quasi dietro la zona diplomatica.) Ci fu un’esplosione di colori e di musica. Nicholas abbassò il volume.

Anna non riusciva a vedere le immagini dal punto in cui sedeva. Ma non aveva importanza. Preferiva guardare Nicholas. Lui guardò per un momento la rivista, poi sospirò e si tolse gli occhiali da sole. — Non si è provato l’inferno finché non si è costretti a portare le lenti bifocali degli alieni — disse e tirò fuori un altro paio di occhiali da una tasca. Erano di fattura decisamente hwar: lenti rettangolari e pesante montatura metallica. — Questi sono fatti su ordinazione. Vanno benissimo e le lenti fanno il lavoro che devono fare, ma li guardi… — Se li mise. Erano assolutamente orribili. Maria si portò una mano alla bocca.

— Continuo a sperare che i hwarhath catturino una nave con un buon ottico, ma finora non ho avuto fortuna.

— Sono veramente bifocali? — domandò Anna. — Non glieli ho mai visti, prima d’ora.

— Grazie a Dio, non mi serve quasi alcuna correzione per la vista da lontano. È più facile farne a meno, salvo quando leggo. — Nicholas premette Play sulla rivista. Altri colori ondeggiarono. Di tanto in tanto, diceva: — Non scherziamo.

Hattin guardò da sopra la spalla. Il soldato umano distolse lo sguardo, il che significava… quasi certamente… che apparteneva a una setta religiosa conservatrice.

Dopo un po’, Hattin parlò. Nicholas sollevò la testa e sorrise. — Dice che è tutto ridicolo o disgustoso. È un peccato che lui e Maksud non parlino la stessa lingua. Potrebbero mettere insieme un bel duetto di indignati prima di scoprire quanto siano diverse le loro culture.

Il soldato umano aggrottò di nuovo la fronte. Hattin aveva l’aria serena di sempre, anche se non guardava più la rivista. Guardava invece la baia, tralasciando la cultura popolare umana senza neppure scrollare le spalle. Anna, naturalmente, non aveva idea se gli alieni scrollassero le spalle o avessero un qualche gesto equivalente.

— Che cosa pensa di lei Hattin? — chiese.

— Fa parte della guardia personale del generale ed è molto leale. Se Ettin Gwarha dice che sono a posto, questo gli basta. Non tocca a lui ragionare sul perché. Se vuole scusarmi, finirò questo articolo. Chi mai chiamerebbe un gruppo musicale Stalin ed Epigoni?

Lesse, le spalle curve, lo sguardo intento. Anna guardò il cielo sopra la zona diplomatica. Era striato da piccole nubi.

Una strana giornata. Le era piaciuta, fatta eccezione per il registratore che aveva in tasca. Si sentiva una traditrice, anche se era lei la persona leale.

Nicholas finì l’articolo, poi ascoltò il saggio di registrazione di Stalin ed Epigoni che era incluso. — Orribile, ma, del resto… se ho capito l’articolo… dev’esserlo. — Spense la rivista e la restituì a Maria. — Grazie. Qualcuno sa l’ora?

Anna non tirò fuori il registratore. Fu Maria, invece, a entrare nella cabina per controllare.

Nicholas si tolse gli occhiali alieni e li mise via. — La prossima volta, le chiederò delle sue creature. Come stanno?

— Benissimo. La settimana prossima o giù di lì si dovrebbe avere la massima esibizione di luci. Poi, diminuiranno e si attenueranno.


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