Ma chi era quella persona? Anna ripassò mentalmente i nomi di famigerati mostri degli ultimi duecento anni. Nessuno aveva mai presentato la prova certa che il dottor Mengele fosse morto. Ma dopo centonovant’anni… E il colonnello Peterson giaceva sotto un nero monumento di granito dopo aver dedicato la sua vita (così diceva l’iscrizione sulla lapide) alla Causa della Salute Pubblica in America.
— Ricomparirà soltanto se i hwarhath insisteranno per avere la prova della sua morte. Be’, se proprio insisteranno, allora il suo cadavere finirà su qualche spiaggia. — La donna fece una pausa. — Non nelle migliori condizioni, ma riconoscibile e con resti sufficienti a determinare che è morto per annegamento.
Gesù Maria, quella persona stava gioiosamente trastullandosi con l’idea di un assassinio; lo si capiva dalla voce; e godeva anche all’idea di terrorizzare Anna Perez.
— Se riusciremo a convincerli, se vorranno credere a un incidente, lei e Sanders lascerete il pianeta. Ma non subito. Per il momento, Anna… posso chiamarla così? …lei starà a Campo Libertà.
— Non sarà un nome serio.
— È l’unico posto del pianeta dove siamo liberi dalla sorveglianza del nemico. — La donna tacque. — E liberi dalla interferenza dei civili. Sì, Anna, il nome è serio. — Si alzò. Adesso Anna poteva vedere anche i pantaloni di ottima fattura che completavano la sua tenuta. — Le mostro la sua stanza.
Lasciarono Gislason in ufficio. La donna fece strada lungo il corridoio. Adesso c’era una nuova canzone, una che Anna non conosceva. La musica era sempre troppo forte e ancora Anna non riusciva a capire le parole anche se le parve che fossero inglesi.
Svoltarono in un corridoio laterale. Il livello del rumore diminuì appena.
— Ecco — disse la donna e aprì una porta.
Un’altra stanza assolutamente ordinaria. Sembrava quella di un dormitorio. Un tavolo, una sedia, un cassettone, un letto, una seconda porta che dava in un piccolo bagno. Niente finestre, naturalmente.
— Ci sono degli asciugamani nel bagno, e l’altro occorrente… spazzolino, pettine e così via. Il cassettone contiene un cambio di indumenti. C’è un computer nel tavolo. Le ho ordinato la cena, riso al curry con verdure. Temo che tutto il nostro cibo sia vegetariano. Spero non le dispiaccia.
Anna si scoprì a rispondere: — No, certo che no, non mangio quasi mai la carne.
— Bene. — La donna sorrise. — La porta sarà chiusa a chiave. Non possiamo davvero permetterle di girare per il campo. La prego di entrare.
Lei lo fece senza protestare, poi si girò e aprì la bocca. La porta sbatté. Ci fu il clic di un chiavistello che scattava.
Si sedette sul letto. Era una prigioniera, tenuta da gente che aveva deliberatamente distrutto l’unica barca di ricerca esistente nel raggio di anni luce, proprietà del governo che dava lavoro a quella stessa gente. Che razza di stronzi criminali erano?
Assassini, pensò dopo un momento. Questo spiegava certamente perché Nicholas era parso così terrorizzato. Doveva aver saputo.
Aveva fatto la cosa giusta mandando quel messaggio.
E se non fosse arrivato? Se nessuno si fosse comportato di conseguenza? Si tirò indietro i capelli e si massaggiò il viso. Aveva tutti i muscoli tesi. E se il messaggio fosse finito in mano alla Mi? Era possibile, forse probabile, si rese conto.
Il suo corpo sarebbe stato ritrovato su una spiaggia, e forse allora non avrebbero neppure avuto bisogno di uccidere Nicholas. Se trovavano lei, allora i hwarhath si sarebbero convinti che l’incidente era vero.
Il messaggio poteva perfino essere inutile. Forse doveva già rassegnarsi alla sconfitta. Aveva fatto quello che volevano. Non era più di alcuna utilità e poi… sapeva troppo.
Nicholas, invece, era assai più prezioso. Aveva senso uccidere prima lei.
Cominciò a tremare. Come aveva fatto a finire in quel casino?
Parlando con un uomo piacevole. Accettando qualcuno non appena lo aveva visto. Piacendole qualcuno soltanto perché era curioso e faceva buone domande.
La porta si aprì e il soldato con le sopracciglia azzurre entrò. — La cena — disse e depose un vassoio sul tavolo. — Tutto bene? Ha bisogno di qualcosa?
— Uscire di qui.
— Spiacente, signora. Meglio che le dica che questa stanza è sotto sorveglianza. Potrebbe risparmiarle qualche situazione imbarazzante. — Il soldato sorrise. — Facciamo cose che non vogliamo altri vedano. Buonasera.
Se ne andò. Anna si alzò. Non aveva fame, ma c’era mezza bottiglia di vino bianco sul vassoio. Certamente non adatto alla giornata che stava vivendo ma doveva fare di necessità virtù. Aprì la bottiglia e riempì un bicchiere, rimettendosi a sedere. Era un po’ dolce. Uno Chardonnay?
Dopo che ebbe finito il vino, decise che era troppo presto per lasciarsi prendere dal panico. Non sapeva ancora abbastanza. Il suo consigliere alle scuole superiori le aveva detto che era il suo grande difetto. Formulava teorie e traeva conclusioni prima di avere dati sufficienti.
Aprì il cassettone e trovò una camicia da notte: lunga e di vera flanella, con un grazioso motivo floreale.
Che razza di gente era quella? E cosa significava la camicia da notte? Era possibile uccidere qualcuno dopo avergli procurato una camicia da notte di flanella?
Sì, decise dopo un po’. Era possibile ma non era giusto.
Portò la camicia da notte in bagno e fece una doccia. L’acqua era calda e c’era anche la schiuma da bagno. Doveva essere stata la donna senza nome, il capo… almeno in apparenza… di Campo Libertà. Era da lei: l’ospite perfetta. Quel posto faceva parte di una guida ai Country Inn e ai Campi di concentramento. Usò la schiuma da bagno. Schiumava in modo davvero soddisfacente.
Dopo, si lavò i denti e andò a letto. Rimase a lungo al buio a pensare alla possibilità della morte, poi finalmente scivolò in un sonno agitato e frequentemente interrotto. I suoi sogni furono frammentari e spiacevoli. Cose le davano la caccia. E lei non poteva correre.
Si svegliò un’ultima volta e udì la musica, forte e confusa. La porta della stanza era aperta. Il soldato con le sopracciglia azzurre era fermo sulla soglia. — Spiacente di disturbarla, signora. Me ne andrò tra un minuto. — Mise un vassoio sul tavolo e ritirò quello della cena. — E mi scuso anche per la colazione. Abbiamo qualche problema in cucina. Il dottore vuole vederla quando sarà pronta.
— Chi?
— L’ha conosciuta ieri.
La donna con i capelli ricci.
Il soldato se ne andò e Anna si alzò. Il vassoio conteneva fagioli neri, riso e caffè nero. Niente male, dopotutto. Il caffè era molto meglio della brodaglia sull’aereo. Dopo che ebbe finito di mangiare, indossò i suoi vestiti. Erano stropicciati e rigidi di salsedine ma desiderava avere il meno a che fare con la Military Intelligence.
Sopracciglia azzurre ritornò e la condusse nell’ufficio del dottor Senzanome. Il dottore c’era, seduto dietro la scrivania. Quel giorno indossava una camicetta rosso fiamma e una casacca nera. La cravatta, d’argento, era di maglia. C’era Gislason, appoggiato contro un muro, le braccia incrociate, con un’aria… come? Sardonica? Anna non era neppure sicura di cosa volesse dire "sardonico". Ma c’era qualcosa che non andava; era la sua espressione a non convincere Anna. E c’era il capitano Van, in un angolo, raggomitolato in una sedia, con un’espressione infelice.
— Si sieda, la prego — disse il dottore.
Anna occupò l’ultima sedia.
— Si è sviluppato un problema — disse il dottore.
— Che cosa?
Intervenne Gislason. — Questa notte il nemico ci ha colpiti. Poco dopo che l’abbiamo scortata nella sua stanza.
Anna aprì la bocca ma lui sollevò una mano. — Non qui, signora. Al momento, questo è l’unico luogo di tutto il pianeta che sia controllato da esseri umani. Hanno espugnato il campo d’atterraggio con razzi e hanno paracadutato truppe nella zona diplomatica e alla stazione. Rapidi. Efficienti. I nostri hanno appena avuto il tempo di lanciare un messaggio. E la cosa seguente che abbiamo sentito è stato un annuncio da parte dei hwarhath che avevano preso tutto e tutti. Tengono in ostaggio l’intera popolazione umana del pianeta. I suoi amici, i miei amici, i diplomatici.