— Penso ancora che la fine non funzioni. Ma se usa le maschere… se i personaggi saranno chiaramente umani… forse sarà accettabile.

Mats era occupato con la produzione della commedia, perciò non l’avevo visto molto per un po’… né Gwarha, che era stato chiamato ad Ata Tsan per arbitrare una disputa davvero spiacevole tra due frontisti. La sua grande abilità sono i negoziati, ma… aveva detto… stava raggiungendo il limite.

— Con questi due non si può ragionare, e provengono da due stirpi che non sono mai state amiche. Resteremo qui a lungo, Nicky.

— Troverò qualcosa da fare.

Mi aveva lanciato un’occhiata piena di considerazione.

Qualche giorno dopo, in una delle molte palestre della stazione, mi ero imbattuto in Mats. Mi trovavo lì a praticare hanatsin con uno dei giovani seri, intelligenti e dalle splendide maniere di cui Gwarha si circonda sempre. (La sua abilità nello scegliere ufficiali giovani è notevole.) Non ricordo più quale giovane fosse. Molto probabilmente, faceva quello che fa la maggior parte: mi gettava sul pavimento imbottito, poi mi aiutava ad alzarmi e mi spiegava con meticolosa cortesia l’errore che avevo commesso.

Matsehar non praticava nessuna delle arti marziali oltre al minimo richiesto a tutti sul perimetro, e non si dedicava a sport competitivi. La sua mancanza di coordinamento era un problema troppo grosso. Ma aveva l’ossessione dei hwarhath per la perfetta forma fisica, e si dava da fare tutti i giorni, nuotando o usando le macchine per la resistenza.

Non c’era da sorprendersi che ci incontrassimo nell’equivalente hwarhath di uno spogliatoio né che lui avesse dimenticato di portare un pettine dal manico lungo. (Mats non è un uomo preciso se non in teatro.) L’avevo trovato seduto in fondo a una panca, intento a cercare di raggiungere i peli tra le scapole con un pettine senza manico.

— Lascia fare a me — avevo detto. Mi ero seduto alle sue spalle e avevo preso il pettine. Per un po’, non c’erano stati problemi. I hwarhath passano molto tempo a spazzolarsi l’un l’altro. È un’attività assolutamente impersonale, e mi ero fatto una grossa esperienza con Gwarha.

I peli crescono con angolature diverse sulle diverse parti di un corpo hwarhath. Avevo imparato come comportarmi, cambiando la posizione del pettine. Sapevo come passarlo tra la peluria aggrovigliata e arruffata, senza provocare dolore, e come districare i nodi sulla cresta dei peli più lunghi che vanno dalla cima di una testa hwarhath fino in fondo alla spina dorsale. Sapevo quanta pressione fosse piacevole e confortante.

La mia mente doveva essersi spostata su Gwarha o su un qualunque giovane mi avesse fatto piroettare per la sala dell’hanatsin. Tutt’a un tratto, mi ero reso conto che la mano libera non era più posata sulla spalla di Matsehar ma si era spostata verso l’interno e il basso. Stavo massaggiando… accarezzando… il saldo muscolo della spalla, muovendomi verso la meravigliosa peluria serica del collo e della schiena.

Mats era seduto, immobile, non si sporgeva più verso di me. Potevo notare disagio nel modo in cui si reggeva e sentivo il muscolo contrarsi sotto la mia mano.

Ero un po’ sorpreso dalla sua reazione, ma non molto. Alcuni maschi hwarhath non mostrano interesse per il sesso. Nella loro cultura, non c’è niente di vergognoso in ciò: non sono costretti a mentire o a fingere. Certi sono monogami. Gwarha lo è, quasi sempre. Secondo lui, la promiscuità è troppo faticosa per una ricompensa che non è commisurata. Può usare la stessa energia per la sua carriera e ottenere qualche vero beneficio per se stesso e la sua stirpe. E, infine, ci sono molti hwarhath, la stragrande maggioranza, che non hanno alcun interesse per me.

Avevo borbottato: — Scusami — e avevo finito di pettinargli la schiena, lavorando in fretta, ora, e nel modo più impersonale possibile. Poi mi ero alzato e avevo restituito il pettine. Lui mi aveva ringraziato, la testa bassa, l’aria infelice.

— Non preoccuparti, Mats. Conosci la mia reputazione. Era quasi inevitabile che ci provassi. Non accadrà una seconda volta.

Lui mi aveva guardato, con un’espressione miserabile.

Non era il caso di toccarlo. Avevo detto: — Sta’ allegro — che si può dire nella lingua principale hwarhath, anche se per loro significa "non essere scuro" piuttosto che "non essere pesante".

Lui aveva continuato a guardarmi e non aveva mutato espressione.

— Ti parlerò, più tardi — avevo detto, e me n’ero andato.

Non lo avevo rivisto forse per venti giorni. Lui ovviamente mi evitava. Non avevo intenzione di dargli la caccia. Avevo dedicato più tempo al lavoro, e a Gwarha, quando era possibile.

Una sera, Gwarha aveva detto: — Che cosa succede tra te e Portatore Eh?

Gli avevo dato una qualche risposta evasiva.

Gwarha aveva guardato il tavolo davanti a lui. Si stava divertendo con un altro gioco da tavolo. Ricordo quale, questa volta: eha. Si trattava di un pezzo di legno piatto e quadrato, di un colore pallido e finemente granulato. Vi era stata incisa una griglia di linee rette e dove queste si incontravano c’erano degli incavi: qui si mettevano le pedine, piccoli ciottoli rotondi raccolti sulle rive dei fiumi della terra di Ettin. A rigor di logica, le pedine erano sempre della terra del giocatore, idealmente da lui stesso raccolte. I campioni di quel gioco impiegavano centinaia di giorni a cercare le pietre giuste. Gwarha non è un campione e non ha mai avuto il tempo per quel genere di cose. Era stata una delle sue zie a mandargli le pietre.

Gwarha aveva mosso una pietra, poi mi aveva guardato. — Non è il tipo d’uomo che di solito ti interessa, e… ho sentito due storie. Una è che non gli interessa il sesso. L’altra è che gli piacciono gli attori che rivestono ruoli femminili.

— Hai fatto delle ricerche.

— Mi piace essere al corrente di quello che fai. — Aveva guardato il computer sul divano, accanto a lui. Il programma ricreava lo stile di un campione morto da lungo tempo. — Hah! Sono nei guai.

Mi ero seduto per un po’, arrabbiato. Ci sono volte in cui la costante lotta all’interno della società maschile hwarhath… i pettegolezzi, lo spionaggio e le manovre per la posizione… è maledettamente stancante, almeno per me, anche se mai per Gwarha.

Alla fine avevo detto: — Ci ho provato. Sono stato respinto. Al momento, il portatore svolta gli angoli quando mi vede arrivare.

— Un ragazzino stupido — aveva commentato Gwarha e aveva mosso un’altra pietra.

Qualche tempo dopo, Mats mi aveva chiamato. — Devo parlarti, Nicky, e mi serve un posto sicuro.

Voleva dire un posto senza orecchi estranei… una richiesta non facile, vista la mania che avevano i hwarhath di tenersi d’occhio l’un l’altro. Ma, a quel tempo, Gwarha aveva un suo servizio di sicurezza (aveva già una buona posizione); e avevano controllato sia le mie stanze che le sue.

— Qui — avevo detto.

— E il difensore?

— Un paio d’anni fa, abbiamo fatto un patto. Di me ci si può quasi certamente fidare e ho bisogno di privacy. Gli umani non sono socievoli come il Popolo.

— Hah! — aveva esclamato Matsehar.

Era arrivato alla mia porta con un recipiente piatto. Sapevo che cos’era. C’erano delle serpentine refrigeranti nell’intercapedine tra il rivestimento interno e quello esterno di ceramica che mantenevano sotto zero il liquido: l’halin o il kalin, a seconda dell’accento. È una tossina molto forte e non avevo mai visto Mats nemmeno lontanamente brillo.

Era entrato e aveva estratto da una tasca dei calzoncini una tazza, si era seduto e aveva versato l’halin, trasparente e verde come l’erba in primavera.

— Sei sicuro di voler bere quella roba?

— Sì. Questa non è una conversazione che voglio fare da sobrio.

Aveva bevuto l’halin e aveva riempito di nuovo la tazza, poi aveva cominciato a parlare. Dapprima aveva girato intorno all’argomento, saltando da un soggetto all’altro: la nuova commedia, i vari pettegolezzi. Alle sue spalle (ricordo) c’era il monitor delle mie stanze. Le luci erano tutte accese e incolori. Segno che le porte erano chiuse e che il sistema di comunicazione era spento. Nessuno ascoltava, tranne me.


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