«Ah, certo» disse il padre capitano de Soya. Riusciva a immaginare che la Pax Mercatoria comprasse interi pianeti, ma non che permettesse a un concorrente di acquisire un tale potere nei pochi anni in cui lui era stato lontano dalla Pax e all’oscuro delle ultime novità. Non importava. Si rivolse all’ammiraglio Marusyn. «Un’ultima domanda, signore.»

L’ammiraglio diede un’occhiata al cronometro comlog e annuì, brusco.

«Da quattro anni manco dalla Flotta» disse piano de Soya. «Non ho più portato l’uniforme e non ho avuto aggiornamenti tecnologici. Il pianeta dove prestavo servizio sacerdotale è lontanissimo dai centri principali; in pratica è come se avessi passato in crio-fuga tutto questo tempo. Come potrei, signore, assumere il comando di una astronave classe Arcangelo della nuova generazione?»

Marusyn corrugò la fronte. «Procederemo ad aggiornarla, padre capitano. La Flotta della Pax sa ciò che fa. Oppure la sua è una risposta negativa a questa nomina?»

Il padre capitano de Soya esitò visibilmente. «Nossignore» disse poi. «Apprezzo la fiducia che lei e la Flotta della Pax dimostrate nei miei confronti. Farò del mio meglio, Ammiraglio.» De Soya era stato addestrato alla disciplina due volte, una come prete e gesuita, una come ufficiale della Flotta di Sua Santità.

Marusyn ammorbidi l’espressione del viso. «Sono sicuro che farà del suo meglio, Federico. Siamo lieti di riaverla con noi. Vorremmo che lei restasse nel presbiterio dei legionari, qui su Pacem, finché non saremo pronti a inviarla alla sua nave, se per lei va bene.»

"Maledizione!" pensò de Soya. "Ancora prigioniero con quei maledetti legionari." Ma rispose: «Naturalmente, signore. È un luogo piacevole».

Marusyn diede di nuovo un’occhiata al comlog: l’incontro era alla fine. «Qualche richiesta, prima che l’incarico diventi ufficiale, padre capitano?»

De Soya esitò di nuovo. Fare richieste sarebbe stato controproducente, lo sapeva. Ma non cambiò idea. «Sì, signore» disse. «Solo una. Nella vecchia Raffaele avevo tre subalterni, guardie svizzere portate con me da Hyperion. Il lanciere Rettig… è morto, signore, ma il sergente Gregorius e il caporale Kee sono stati con me fino alla fine e mi chiedevo se…»

Marusyn annuì con impazienza. «Li vuole con lei sulla nuova Raffaele. Mi pare una richiesta ragionevole. Avevo un cuoco che mi trascinavo di nave in nave… il poveraccio rimase ucciso nella seconda battaglia del Sacco di Carbone. Non so niente di quei suoi uomini.» Diede un’occhiata all’ammiraglio Wu.

«Per puro caso mi sono passati fra le mani i loro dossier, mentre rivedevo le carte per la sua reintegrazione, padre capitano» disse l’ammiraglio Wu. «Al momento il sergente Gregorius presta servizio nei Territori dell’Anello. Sono sicura che si può combinare un trasferimento. Il caporale Kee purtroppo…»

De Soya si sentì stringere lo stomaco: Kee era con lui su Bosco Divino, mentre Gregorius era stato rimesso nella culla, perché la risurrezione non era riuscita. L’aveva visto ancora una volta, dopo il ritorno nello spazio di Pacem, quando gli agenti della polizia militare li avevano arrestati e portati in celle separate. Gli aveva stretto la mano e gli aveva promesso che si sarebbero rivisti.

«… è morto due anni standard fa» proseguì Wu. «Fu ucciso durante un attacco degli Ouster nel Saliente Sagittario. Ha ricevuto la Stella d’Argento di San Michele, alla memoria, è ovvio.»

De Soya annuì sobriamente. «Grazie» disse.

L’ammiraglio Marusyn rivolse a de Soya il suo paterno sorriso da politico e gli tese la mano, da sopra la scrivania. «Buona fortuna, Federico. Usi la Raffaele per mandarli all’inferno.»

Il quartier generale della Pax Mercatoria non si trovava su Pacem, ma era — opportunamente — dislocato nel punto troiano Lagrange 5, a circa sessanta gradi dal piano dell’eclittica. Fra il pianeta del Vaticano e il gigantesco toroide cavo della Pax Mercatoria (una ciambella carbonio-carbonio spessa 270 metri, larga un buon chilometro e del diametro di 26 chilometri, dall’interno intersecato di filiformi bacini di carenaggio, antenne di trasmissione e scomparti di carico) si librava metà potenza di fuoco della Flotta della Pax, di stanza in orbita. Kenzo Isozaki aveva calcolato una volta che un tentativo di colpo di Stato partito dal toroide sarebbe durato 12,06 nanosecondi, prima di finire in vapore.

L’ufficio di Isozaki si trovava in un bulbo trasparente su uno stelo di fibrocarbonio che sporgeva di quattrocento metri dal bordo esterno del toroide. Il guscio pellicolare ricurvo del bulbo poteva essere reso opaco o lasciato trasparente a seconda del capriccio del primo funzionario esecutivo (PFE) che lo occupava. Oggi era trasparente, a parte la sezione polarizzata che attenuava il bagliore del giallo sole di Pacem. In quel momento lo spazio pareva nero ma, con la rotazione del toroide, il bulbo si sarebbe venuto a trovare nell’ombra dell’anello e Isozaki, guardando in alto, avrebbe visto la comparsa istantanea delle stelle, come se un nero sipario fosse stato tirato da parte per rivelare migliaia di candele dalla fiammella vivida e immobile. "O la miriade di fuochi di bivacco dei miei nemici" pensò Isozaki, mentre l’oscurità scendeva per la ventesima volta nella sua giornata di lavoro.

Con le pareti completamente trasparenti, l’ufficio ovale, arredato con una modesta scrivania, poltroncine e lampade dalla luce soffusa, pareva una piattaforma rivestita di moquette, isolata nell’immensità dello spazio, illuminata dalle lucenti stelle singole e dal lungo braccio della Via Lattea. Ma non fu quel ben noto spettacolo a far alzare gli occhi al PFE della Pax Mercatoria: nel campo di stelle si distinguevano tre code di fusione di astrocarghi in arrivo, simili a macchie in un ologramma di astronomia. Isozaki era così abile a giudicare le distanze e i delta-v delle code di fusione da poter dire, dopo un’occhiata, entro quanto tempo quegli astrocarghi sarebbero entrati nei bacini di carenaggio, e anche il loro nome. L’astronave della Pax Mercatoria Moldahar Effectuator si era rifornita di combustibile scremando una gigante gassosa nel sistema di Epsilon Eridani e bruciava di un rosso più vivido del solito. Il capitano dell’astronave di Sua Santità (ASS) Emma Constant aveva la solita fretta di portare al toroide il carico di metalli fissili da Pegaso 51 e decelerava a velocità superiore di un buon cinquanta per cento a quella raccomandata dalla Pax Mercatoria. Infine la macchia più piccola poteva essere solo l’ASS Elemosineria Apostolica, che aveva appena compiuto il balzo dal punto di traslazione C-più e proveniva dal sistema di Rinascimento: Isozaki le riconobbe con una sola occhiata, proprio come riconosceva gli altri trecento e passa punti di traslazione ottimale visibili nella sua parte di cielo del sistema di Pacem.

L’ascensore si alzò dal pavimento e divenne un cilindro trasparente il cui passeggero era illuminato dalla luce delle stelle. Isozaki sapeva che il cilindro era trasparente solo dalla sua parte: all’interno, il passeggero era circondato da una paratia a specchio e non avrebbe visto niente dell’ufficio del PFE, ma solo il proprio riflesso, finché Isozaki non avesse azionato l’apertura della porta.

Anna Pelli Cognani era la sola occupante dell’ascensore. Isozaki annuì e la sua IA personale azionò l’apertura. La sua collega e protégée non diede neppure un’occhiata al campo di stelle in movimento e si avvicinò. «Buon pomeriggio, Kenzo-san» disse.

«Buon pomeriggio, Anna» rispose Isozaki. Con un gesto la invitò ad accomodarsi nella più confortevole delle poltroncine, ma Anna Pelli Cognani scosse la testa e rimase in piedi. Non si sedeva mai nell’ufficio di Isozaki, ma Isozaki non mancava mai di invitarla a sedersi.

«La messa del conclave è quasi terminata» disse Anna Pelli Cognani.

Isozaki annuì. In quel momento l’IA del suo ufficio oscurò le pareti della bolla e proiettò la trasmissione a raggio compatto del Vaticano.


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