Per un momento la corrente divenne molto forte. Mossi la pagaia con violenza per non sbattere contro un albero incagliato in un banco di sabbia e mi trovai al centro della corrente, lanciato a sud. Mi guardai indietro, ma le pareti degli ultimi edifici di HannibaI avevano nascosto la mia cara ragazza.

Dopo un minuto udii un ronzio come dei repulsori EM della navetta; ma quando guardai in alto, vidi solo ombra. Forse era Aenea che sorvolava in cerchio la zona. Forse era una bassa nuvola nella notte.

Il fiume mi tirò a sud.

5

Il padre capitano de Soya lasciò il sistema solare di Pacem a bordo dell’astronave di Sua Santità (ASS) Raguele, un incrociatore classe Arcangelo simile alla nave che avrebbe comandato. Ucciso dal terribile vortice del segretissimo motore istantaneo, noto ora alla Flotta della Pax come motore Gideon, de Soya fu risuscitato in due giorni, anziché nei soliti tre (il cappellano addetto alla risurrezione corse il rischio d’insuccesso per ubbidire ai pressanti ordini del padre capitano) e si trovò nella stazione Omicron2-Epsilon3, adibita al posizionamento strategico della Flotta, in orbita intorno a un pianeta roccioso, privo di vita, che girava nelle tenebre al di là di Epsilon Eridani, nel Vecchio Vicinato, a solo una manciata di anni luce dalla zona dove un tempo si trovava la Vecchia Terra.

De Soya ebbe un giorno per riprendersi dal disorientamento e poi fu trasferito con una navetta alla base provvisoria Omicron2-Epsilon3, a centomila chilometri di distanza dalla base militare. Il cadetto che comandava la "vespa" spaziale effettuò una deviazione per offrire al padre capitano de Soya una buona panoramica della sua nuova nave; suo malgrado, a quella vista de Soya si emozionò.

L’ASS Raffaele rappresentava evidentemente una tecnologia d’avanguardia che non derivava più, come tutte le navi della Pax viste in precedenza da de Soya, da progetti dell’Egemonia riscoperti dopo la Caduta. L’insieme pareva troppo scarno per il lavoro pratico nel vuoto e troppo complesso per l’atmosfera, ma dava una generale impressione di micidiale efficienza. Lo scafo, un misto di leghe morfizzabili e di zone di pura energia solida, consentiva rapidi cambiamenti di forma e di funzioni che qualche anno prima sarebbero stati impossibili. Mentre la vespa girava intorno alla Raffaele in un lungo e lento arco balistico, de Soya guardò l’esterno della lunga astronave virare dall’argento cromo al nero metallina mimetica, in pratica scomparire alla vista. Nello stesso tempo, parecchi dei bracci di strumentazione e degli alloggiamenti abitabili furono inghiottiti dal liscio scafo centrale, finché rimasero solo bolle d’armi e sonde di campi di contenimento. O la nave si preparava ai controlli per la traslazione da quel sistema, pensò de Soya, oppure gli ufficiali a bordo sapevano bene che la vespa portava il nuovo comandante e facevano un po’ di scena.

Quasi certamente, si disse, tutt’e due le ipotesi erano vere.

Notò, prima che l’incrociatore diventasse tutto nero e invisibile, che le sfere del motore a fusione erano state raggruppate come perle intorno all’asse centrale della nave, anziché essere concentrate in un unico rigonfiamento, come nella sua vecchia nave torcia, la Baldassarre. Notò pure che l’insieme del motore Gideon era molto più piccolo su quella nave che sul prototipo Raffaele. Prima che l’incrociatore scomparisse, notò lo scintillio di luci degli alloggiamenti abitabili, trasparenti e retrattili, e la chiara cupola del ponte di comando. In combattimento (de Soya lo sapeva dalle letture fatte su Pacem e dalle iniezioni di RNA didattico ricevute al quartier generale della Flotta della Pax) quelle zone trasparenti si sarebbero morfizzate in spesse epidermidi corazzate, ma lui aveva sempre preferito una veduta panoramica e avrebbe apprezzato quella finestra nello spazio.

«Ci accostiamo alla Uriele, signore» disse il cadetto pilota, una ragazza.

De Soya annuì. L’ASS Uriele pareva un clone della nuova Raffaele; ma, mentre la vespa decelerava e si avvicinava, il padre capitano scorse i generatori supplementari a coltello omega, gli alloggiamenti extra per le conferenze, illuminati, e le più complesse antenne trasmissioni che rendevano quel vascello l’ammiraglia della task force.

«Avviso d’accostamento, signore» disse il cadetto.

De Soya annuì e si accomodò sulla cuccetta di accelerazione due. La manovra di aggancio fu così delicata che il padre capitano non sentì il minimo sussulto, quando le ganasce di collegamento si chiusero e lo scafo della nave si morfizzò intorno alla vespa. Fu tentato di complimentarsi con la giovane pilota, ma ricadde nelle vecchie abitudini di capitano.

«La prossima volta» disse «nell’approccio finale cerca di evitare la fiammata all’ultimo secondo. L’esibizionismo non piace agli ufficiali superiori di una nave ammiraglia.»

La giovane pilota ci restò male.

De Soya le posò la mano sulla spalla. «A parte questo, hai fatto un buon lavoro. Ti prenderei a bordo della mia nave come pilota di navetta in qualsiasi momento.»

La giovane pilota si ravvivò. «Quanto mi piacerebbe, signore! Questo incarico alla stazione…» Si interruppe, rendendosi conto d’essersi spinta troppo oltre.

«Lo so» disse de Soya, fermo accanto al portello che aveva iniziato il ciclo di apertura. «Lo so. Ma per ora ringrazia il cielo di non partecipare a questa crociata.»

Il portello terminò il ciclo e si aprì. Una guardia d’onore accolse de Soya a bordo dell’ASS Uriele… l’arcangelo, se il padre capitano ricordava bene, che nel Vecchio Testamento era indicato come il capo del celeste esercito degli angeli.

A novanta anni luce di distanza, in un sistema solare a soli tre anni luce da Pacem, la prima Raffaele traslò nello spazio reale, con una violenza che avrebbe fatto schizzare il midollo dalle ossa, tagliato cellule umane come una lama arroventata taglierebbe un ragnatelide radiante e rimescolato i neuroni come se fossero biglie lasciate libere giù per un ripido pendio. A Rhadamanth Nemes e ai suoi cloni la sensazione non piacque, ma nessuno di loro emise un gemito né storse la bocca in una smorfia.

«Dov’è questo posto?» disse Nemes, guardando un pianeta marrone ingrandirsi sullo schermo. La Raffaele decelerava a 230 gravità. Nemes non se ne stava nella cuccetta antiaccelerazione, ma si reggeva a una sbarra, con l’indifferenza di un pendolare in un autobus affollato.

«Su Svoboda» disse uno dei due maschi.

Nemes annuì. Nessuno dei quattro aprì ancora bocca. La nave classe Arcangelo entrò in orbita, la navetta si staccò e sibilò nella rarefatta atmosfera.

Solo allora Nemes domandò: «Lui sarà qui?». Alcuni microfilamenti le uscivano dalle tempie e si collegavano al quadro comandi della navetta.

«Oh, sì» rispose l’altra donna.

Pochi esseri umani vivevano su Svoboda, ma fin dalla Caduta si erano radunati in cupole a campo di forza, nella zona del crepuscolo, e non avevano la tecnologia necessaria per rilevare la presenza della nave Arcangelo o della sua navetta. In quel sistema non c’erano basi della Pax. Il lato del roccioso pianeta esposto al sole ribolliva al punto che il piombo vi scorreva come acqua, mentre sul lato non illuminato la rarefatta atmosfera era sempre sul punto di solidificarsi in ghiaccio. Però nelle viscere del pianeta correvano più di ottocentomila chilometri di tunnel, ciascuno dei quali aveva una sezione quadrata di trenta metri per trenta. Svoboda era uno dei nove pianeti labirinto scoperti nei primi tempi dell’Egira ed esplorati durante l’Egemonia. Hyperion era un altro di quei nove pianeti. Nessun essere umano, vivente o defunto, conosceva il segreto dei labirinti né chi li aveva creati.

Nemes pilotò la navetta in una violenta tempesta di ammoniaca sul lato oscuro, si librò un istante di fronte a uno strapiombo di ghiaccio visibile solo agli infrarossi e sugli schermi a ingrandimento, poi ritrasse nello scafo le ali e puntò all’ingresso quadrato del labirinto. Il tunnel svoltò una volta e proseguì dritto per chilometri e chilometri. Il radar di profondità mostrava un alveare di altri passaggi più in basso. Nemes volò per tre chilometri, girò a sinistra al primo incrocio di tunnel, scese a mezzo chilometro dalla superficie, percorse altri cinque chilometri in direzione sud e poi fece atterrare la navetta.


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