"St. Louis" mi rispose il comlog da polso, quando interrogai l’IA della nave. "Distrutta ancora prima delle Tribolazioni. Abbandonata prima del Grande Errore del ’38."

«Distrutta?» ripetei, indirizzando il kayak verso la gigantesca arcata. Notai solo allora che la riva ovest, dietro l’arco, curvava in un perfetto semicerchio e formava un lago poco profondo. Antichi alberi seguivano la curvatura della ripida riva. Un cratere d’impatto, pensai, ma non avrei saputo dire se causato da un meteorite o da una bomba o dal guasto di un impianto per la produzione di energia o da un altro evento disastroso. «Distrutta come?» domandai al comlog.

"Nessuna informazione. Però ho alcuni dati che riguardano l’arcata davanti a noi."

«Un teleporter, no?» dissi, lottando contro la forte corrente sul lato ovest del canale principale per spingere a est il kayak, verso l’arcata.

"In origine no" disse il comlog. "Le dimensioni e l’orientamento del manufatto coincidono con la posizione e le dimensioni del cosiddetto Gateway Arch, una bizzarria architettonica costruita nella città di St. Louis ai tempi degli Stati Uniti d’America, verso la metà del XX secolo. Doveva simbolizzare l’espansione a ovest dei pionieri di ascendenza europea, egemoni e protonazionalisti che emigrarono da quelle parti nel tentativo di subentrare agli originari indigeni nordamericani pre-Riserve."

«Gli indiani» dissi, ansimando sulla pagaia per superare l’ultimo tratto di corrente contraria e mettere in linea con la gigantesca arcata il ballonzolante kayak. C’erano state un paio d’ore di sole, ma ora il vento gelido e i nuvoloni grigi erano tornati. Gocce di pioggia picchiettavano lo scafo di fibra di vetro e increspavano le creste d’onda ai lati. Ora la corrente portava il kayak verso il centro dell’arcata; mi riposai un momento, facendo attenzione a non premere accidentalmente il pulsante rosso. «Così quel portale è stato costruito per onorare la gente che uccise gli indiani» dissi, appoggiandomi sui gomiti.

"L’originale Gateway Arch non aveva funzioni teleporter" replicò la voce della nave, in tono compassato.

«Ha resistito al disastro che ha causato… questa distruzione?» domandai, indicando con la pagaia il lago derivato dal cratere d’impatto e il suo assortimento di edifici inondati.

"Nessuna informazione."

«E non sai se è un teleporter?» domandai, ansimando di nuovo, perché avevo ripreso a vogare con forza. Ora l’arcata si stagliava su di me, alta almeno cento metri all’apice. Il sole invernale traeva cupi riflessi dalle fiancate arrugginite.

"No" rispose la memoria della nave. "Non sono registrati teleporter sulla Vecchia Terra."

Era logico che non esistesse una simile registrazione. La Vecchia Terra era precipitata nel buco nero del Grande Errore, o era stata trafugata dai Leoni e Tigri e Orsi, almeno un secolo e mezzo prima che il TecnoNucleo desse alla vecchia Egemonia le conoscenze per costruire i teleporter. Ma c’era un piccolo e perfettamente funzionante teleporter su quel fiume (torrente, in realtà) della Pennsylvania occidentale dove, quattro anni fa, Aenea e io ci eravamo teleportati da Bosco Divino. E nei miei viaggi ne avevo visti altri.

«Bene» dissi, più a me stesso che alla stupida IA del comlog. «Se non è un teleporter, continueremo sul fiume. Aenea aveva un motivo per mettermi in acqua là dove mi ha messo.»

Non ne ero poi così sicuro. Sotto quell’arcata non c’era il baluginio rivelatore dei teleporter, nessuna fuggevole visione di luce del sole o delle stelle. Solo il cielo che si scuriva e, al di là del lago, la striscia nera della foresta sulla riva.

Mi appoggiai all’indietro e guardai in alto l’arcata, sorpreso di vedere le centine d’acciaio lasciate scoperte da pannelli mancanti. Il kayak era già passato sotto l’arcata e non avvertivo nessuna transizione, nessun improvviso senso di luce e di gravità e di odori alieni. Quella costruzione era solo una vecchia bizzarria architettonica in pessimo stato che per caso assomigliava a un…

Tutto cambiò.

L’attimo prima, il kayak e io ballonzolavamo sul Mississippi spazzato dal vento, diretti verso il lago poco profondo nel cratere che un tempo era la città di St. Louis; l’attimo dopo, era notte e io e la piccola imbarcazione di fibra di vetro scivolavamo lungo uno stretto canale, un canyon di edifici illuminati sotto un buio lucernario più di mezzo chilometro sopra la mia testa.

«Cristo» mormorai.

"Antica figura messianica" disse il comlog. "Le religioni basate sui suoi presunti insegnamenti comprendono il cristianesimo, il cristianesimo zen, l’antico e moderno cattolicesimo e varie confessioni protestanti come…"

«Sta’ zitto» ordinai. «Modo: bravo bambino.» Dopo questo ordine, il comlog parlava solo quando era interrogato.

Non ero il solo a navigare su quel canale, se di canale si trattava. Decine di barche a remi e di barchette a vela e di kayak simili al mio risalivano e scendevano il fiume. Più vicino, in viali e lungofiumi, in strade sopraelevate che scavalcavano in tutte le direzioni l’acqua risplendente per le luci, centinaia di persone camminavano in coppie e in gruppetti. Individui tarchiati, in abiti vivaci, procedevano lentamente da soli.

La gravità mi appesantiva le braccia: me ne accorsi quando provai a sollevare la pagaia del kayak (gravità pari a una volta e mezzo quella della Terra, fu la mia immediata impressione) e allora alzai lentamente il viso verso le centinaia, migliaia, di finestre illuminate e di torrette, di passerelle e di balconate e di piazzuole d’atterraggio, di altre luci quando treni cromati ronzavano piano in tubi trasparenti sopra il fiume o quando veicoli EM tagliavano l’aria più in alto o quando piattaforme a levitazione e aerotraghetti portavano persone da una parte all’altra dell’incredibile canyon… e capii tutto.

Lusus. Quel pianeta poteva essere solo Lusus.

Avevo già incontrato dei lusiani: ricchi cacciatori venuti su Hyperion per sparare alle anatre o ai semigirifalchi, ancora più ricchi giocatori d’azzardo che giravano nei casinò delle Nove Code dove avevo lavorato come buttafuori, perfino alcuni esuli (più verosimilmente criminali in fuga dalla giustizia della Pax) che si erano arruolati nella nostra Guardia nazionale. Avevano tutti l’aspetto tarchiato di chi è nato in un pianeta ad alta gravità, come quei tipi bassi, tozzi e muscolosi che sbuffavano nei viali lungo il fiume e nelle passeggiate, richiamando alla mente primitive e potenti macchine a vapore.

Pareva che nessuno badasse al kayak e a me. La cosa mi sorprese: dopotutto ero comparso all’improvviso, mi ero materializzato dal nulla nell’arcata del teleporter alle mie spalle.

Mi guardai indietro e capii per quale motivo la mia comparsa era forse passata inosservata. Il portale era vecchio, ovviamente, risaliva al tempo della decaduta Egemonia e dell’ex fiume Teti ed era stato incorporato nelle mura della città alveare — piattaforme e passerelle sporgevano dallo snello portale o lo scavalcavano — in modo che il tratto di canale o di fiume proprio sotto l’arco era l’unica zona buia di quella città coperta. Mentre guardavo, una piccola motobarca emerse dalla zona d’ombra e scintillò al bagliore delle lampade a vapori di sodio che sovrastavano le passerelle sul fiume: parve comparire all’improvviso dal nulla, come avevo fatto io qualche attimo prima.

Infagottato com’ero in felpa e giubbotto, strettamente infilato nella falda di nylon del piccolo abitacolo del kayak, probabilmente parevo tozzo e muscoloso come gli altri lusiani. Un uomo e una donna in scooter acquatico mi sorpassarono e agitarono il braccio.

Risposi al saluto.

«Cristo» mormorai di nuovo, più come preghiera che come bestemmia. Stavolta dal comlog non giunsero commenti.

Ora farò un’interruzione.

Sono tentato, a questo punto del racconto, malgrado la spinta a sbrigarmi rappresentata dal gas cianuro che in qualsiasi momento potrebbe sibilare nella mia personale scatola di Schrödinger, di descrivere in tutti i particolari la mia odissea sui vari pianeti. Fu in realtà la cosa più prossima alla vera avventura, da quando Aenea e io ci eravamo messi al sicuro sulla Vecchia Terra, quattro anni standard prima.


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