Bin mi sorrise, prese il pesante sacco con gli indumenti del lusiano e uscì di corsa dalla stanza. Il rumore all’esterno della casa crebbe a dismisura. Mi girai a guardare dalla finestra.

A meno di trenta metri, uno skimmer nero sollevava polvere nella via che correva lungo il canale. Potevo vederlo da uno spazio vuoto fra le case. La navetta più grossa si abbassò, fuori vista, verso sud, forse per atterrare nella zona erbosa accanto al pozzo dove ero crollato per il dolore causato dal calcolo renale.

Avevo appena terminato di infilarmi gli stivali e di abbottonarmi il giubbotto, quando Alem mi porse la pistola a fléchettes. Controllai per abitudine la sicura e gli indicatori di carica, ma poi scossi la testa. «No» dissi. «Sarebbe un suicidio, attaccare solo con questa le guardie della Pax. La loro armatura…» In realtà in quel momento non pensavo all’armatura, ma al fuoco di risposta di armi d’assalto che in un batter d’occhio avrebbero raso al suolo la casa. Pensai anche al bambino, là fuori, col sacco della lavanderia e gli indumenti del lusiano. «Bin…» dissi. «Se lo prendono…»

«Lo sappiamo, lo sappiamo» disse Dem Ria. Mi tirò via dal letto e mi spinse nello stretto corridoio. Non ricordavo quella parte della casa. Nelle ultime quaranta ore, il mio universo si era limitato alla stanza da letto e al bagno adiacente. «Su, vieni» disse Dem Ria.

La scostai di nuovo e diedi ad Alem la pistola. «Lasciatemi scappare» dissi, col cuore che mi batteva forte. Indicai il lusiano che russava. «Neppure per un attimo penseranno che sia io. Chiameranno per radio la dottoressa, se non è già a bordo di uno degli skimmer, per identificarmi. Dite loro…» guardai quei visi amichevoli «che ho sopraffatto la guardia e che vi ho tenuto sotto tiro…» Mi fermai, rendendomi conto che il lusiano avrebbe distrutto quella storia di copertura appena si fosse svegliato. La complicità della famiglia nella mia fuga sarebbe stata evidente. Guardai di nuovo la pistola a fléchettes, quasi pronto a prenderla. Una scarica di aghi d’acciaio e il lusiano non si sarebbe mai svegliato per smentire la storia e mettere nei guai quelle brave persone.

Solo, non sarei mai riuscito a ucciderlo. Potevo sparare a una guardia della Pax in regolare combattimento — a dire il vero, la scarica di adrenalina provocata dall’ira che mi bruciava malgrado la debolezza e la paura mi disse che quell’opportunità sarebbe stata per me un vero sollievo — ma non avrei mai sparato a quell’uomo addormentato.

Però lo scontro non sarebbe mai stato regolare. Agenti della Pax in armatura da guerra, senza contare le quattro misteriose persone nella navetta… forse guardie svizzere… avrebbero resistito alle fléchettes e a qualsiasi cosa che non fosse una delle armi d’assalto della Pax. E le guardie svizzere avrebbero resistito anche a queste ultime. Ero fottuto. Quella brava gente così gentile nei miei riguardi era fottuta.

La porta posteriore si spalancò e Bin entrò nel corridoio, con la veste tirata su, mostrando le gambe magre e sporche di polvere rossastra. Lo guardai, pensando che il bambino non avrebbe mai avuto il crucimorfo e sarebbe morto di cancro. I suoi genitori avrebbero forse trascorso i prossimi dieci anni standard in una prigione della Pax.

«Mi spiace…» dissi, cercando le parole giuste. Udivo la confusione nella via, mentre gli agenti si facevano largo di corsa tra la folla serale di pedoni.

«Raul Endymion» disse Dem Loa, con la sua morbida voce, passandomi lo zaino che avevano preso dal mio kayak «fammi il favore di chiudere il becco e di seguirci. Immediatamente!»

Sotto il pavimento del corridoio c’era l’ingresso di un tunnel. Avevo sempre pensato che i passaggi segreti fossero roba da olodrammi, ma seguii volentieri Dem Ria in quel tunnel. Eravamo un bizzarro corteo, Dem Ria e Dem Loa scendevano la ripida scala davanti a me, io impugnavo la pistola a fléchettes, poi il piccolo Bin seguito dalla sorella, poi Alem Mikail Dem Alem che aveva chiuso con cura la botola alle proprie spalle. Nessuno rimase indietro. La casa era vuota, a parte il lusiano addormentato.

La scala scendeva più in basso del livello di un normale scantinato. Sulle prime pensai che le pareti del tunnel fossero di mattoni crudi come quelle della casa, poi mi resi conto che il passaggio era scavato in una roccia tenera, forse arenaria. Dopo ventisette gradini ci trovammo sul fondo del pozzo verticale e Dem Ria ci guidò in uno stretto passaggio illuminato da lividi fotoglobi chimici. Mi domandai perché quella casa di una normale famiglia borghese avesse un passaggio segreto.

Come se mi leggesse nel pensiero, Dem Loa si girò dalla mia parte e bisbigliò: «La Spettroelica di Amoiete esige… ingressi discreti da una casa all’altra. Soprattutto durante la duplice oscurità».

«Duplice oscurità?» bisbigliai a mia volta, chinando la testa per non urtare un fotoglobo. Avevamo già percorso venti o trenta metri, lontano dal canale ritenevo, e il tunnel faceva ancora una curva a destra e continuava fuori vista.

«La lenta, duplice eclisse di sole causata dalle due lune del pianeta» mi spiegò in un bisbiglio Dem Loa. «Dura diciannove minuti esatti. La ragione primaria per cui abbiamo scelto questo pianeta.»

«Ah» dissi. Non capivo, ma non mi pareva una cosa importante, al momento. «I militari della Pax hanno dei sensori per scoprire buchi da cecchino come questo» bisbigliai alla donna che mi precedeva. «Hanno radar di profondità per frugare attraverso la solida roccia. Hanno…»

«Sì, sì» intervenne Alem, alle mie spalle. «Ma per qualche minuto saranno trattenuti dal sindaco e dagli altri.»

«Il sindaco?» ripetei come uno sciocco. Mi reggevo ancora a stento sulle gambe, per i due giorni di letto e di sofferenza. Avevo male alla schiena e al basso ventre, ma era un dolore secondario, irrilevante, a paragone di ciò che avevo passato (e di ciò che era passato dentro di me) nell’ultimo paio di giorni.

«Il sindaco sta contestando il diritto della Pax a fare perquisizioni» bisbigliò Dem Ria. Il passaggio si allargò e proseguì, dritto, per almeno cento metri. Oltrepassammo due passaggi trasversali. Non era una via di scampo, era una maledetta catacomba. «La Pax riconosce l’autorità del sindaco a Chiusa Childe Lamonde» bisbigliò Dem Ria. Le vesti di seta azzurra dei cinque membri della famiglia frusciavano contro l’arenaria, mentre percorrevamo rapidamente il passaggio. «Abbiamo ancora leggi e tribunali, su Vitus-Gray-Balianus B, perciò alla Pax non sono concessi diritti illimitati di perquisizione e di arresto.»

«Ma quelli si faranno dare il permesso da qualsiasi autorità sia preposta» replicai, correndo per tenere il passo. Giungemmo a un altro incrocio e girammo a destra.

«Alla fine, sì» disse Dem Loa. «Ma ora le vie di Chiusa Childe Lamonde sono piene di tutti i colori dell’elemento locale dell’Elica, rossi, bianchi, verdi, gialli, ebano, migliaia di persone del nostro villaggio. E molte altre giungono da Chiuse vicine. Nessuno rivelerà in quale casa eri tenuto. Padre Clifton è stato attirato con un pretesto lontano dal villaggio, così non sarà di aiuto alla polizia della Pax. La dottoressa Molina è stata trattenuta a Keroa Tambat da alcuni di noi e al momento non può mettersi in contatto con i suoi superiori. E il lusiano dormirà almeno per un’altra ora. Da questa parte.»

Girammo a sinistra in un passaggio più ampio, ci fermammo alla prima porta che trovammo, aspettammo che Dem Ria azionasse il lucchetto palmare e passammo in un ampio locale pieno d’echi scavato nella roccia. Ci trovammo in cima a una scala metallica che dava su quello che pareva un garage sotterraneo: cinque o sei veicoli lunghi e sottili, con grosse ruote sproporzionate, parafanghi posteriori, vele e pedali raggruppati per colori primari. Quegli aggeggi parevano carrozze a quattro ruote, con sedile scoperto; si reggevano su sospensioni molto sottili, erano chiaramente spinti dal vento e dai muscoli, avevano rivestimenti di legno, di tessuto polimero serico e brillante, di perspex.


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