"Alberi? Terreno?"

Il pianeta dove prima veleggiavo non aveva terreno, almeno non un terreno che potessi raggiungere senza che l’enorme pressione mi riducesse a una massa grande come il mio pugno. E mi pareva improbabile che ci fossero alberi nel nucleo di quel pianeta gioviano, dove l’idrogeno passava allo stato metallico per l’enorme compressione. Perciò non ero più su quel pianeta. E neppure nel ventre di quella creatura. Dov’ero?

Il tuono esplose intorno a me, col fragore di granate al plasma. Il vento si alzò, scosse il kayak sul suo precario posatoio e mi strappò un grido per il dolore alla gamba. Forse perdetti conoscenza per qualche minuto: quando riaprii l’occhio, il vento era caduto e gocce di pioggia mi colpivano come migliaia di pugni gelidi. Mi tolsi dagli occhi la pioggia e croste di sangue; avevo la febbre, la pelle scottava anche sotto la gelida pioggia.

"Da quanto tempo sono qui?" mi domandai. "Quali microbi nocivi hanno trovato le mie ferite? Quali batteri dividono con me le viscere del calamaro volante?"

A rigor di logica, il ricordo di volare nella nuvolaglia del pianeta gioviano e di essere inghiottito dal gigantesco calamaro era solo un sogno causato dalla febbre: fuggendo da Vitus-Gray-Balianus B, mi ero teleportato qui, dovunque fosse, e tutto il resto era sogno. Ma intorno a me c’erano i resti della paravela. E il ricordo era vivido. E c’era il fatto logico che nella mia odissea la logica non funzionava.

Il vento scosse l’albero. Il kayak scivolò sul precario nido di fronde e di rami spezzati. La gamba rotta mi inviò pugnalate di dolore in tutto il corpo.

Avrei fatto meglio, mi dissi, ad applicare un po’ di logica alla mia situazione. Il kayak rischiava di scivolare da un momento all’altro, oppure i rami si sarebbero rotti e l’intera massa di schegge di fibra di vetro, di bretelle di nylon-10 ancora fissate ai pezzi dello scafo e di brandelli di memostoffa bagnata che erano stati la paravela sarebbe precipitata nel buio, tirandosi dietro me e la mia gamba rotta. Malgrado il balenio di lampi, che adesso era meno regolare e mi lasciava nel buio assoluto, non vedevo niente sotto di me, a parte altri rami, chiazze di buio e i grossi tronchi grigioverdastri di alberi che si torcevano su se stessi in una stretta spirale. Non riconobbi quella specie di alberi.

"Dove sono? Aenea… e ora dove mi hai mandato?"

Lasciai perdere quella linea di pensiero. Era quasi una forma di preghiera e non volevo prendere l’abitudine di pregare la ragazzina con cui avevo viaggiato e che avevo protetto, con cui avevo diviso il cibo e discusso per quattro anni.

"Comunque, tutto sommato, potevi mandarmi in un mondo meno difficile, ragazzina" pensai. "Se avevi possibilità di scelta, cioè."

Il tuono rombò, ma nessun lampo illuminò la scena. Il kayak si mosse e sprofondò, la prua spezzata si inclinò di colpo. Agitai le braccia dietro di me, cercando il grosso ramo che avevo visto nei lampi. C’erano rami spezzati in abbondanza, sterpi scheggiati e affilati come rasoi, il margine seghettato delle frasche. Mi afferrai e tirai, cercando di fare leva per estrarre la gamba rotta dall’abitacolo del kayak, ma la fronda non teneva e uscii solo per metà, scosso dalla nausea per il dolore. Immaginai che puntini neri mi danzassero davanti agli occhi, ma la notte era così buia che non faceva differenza. Vomitai dal fianco del kayak che non smetteva di oscillare e cercai di nuovo una ferma presa nel labirinto di rami spezzati.

"Ma come diavolo sono finito sulla cima degli alberi?"

Non importava. Niente importava, al momento, se non liberarmi da quel casino di pezzi di fibra di vetro e di funi ingarbugliate.

"Ora prendo il coltello e mi tiro fuori da questa trappola."

Il coltello era sparito. La cintura era sparita! Le tasche del giubbotto erano strappate e il giubbotto era ridotto a pochi brandelli. La camicia era nelle stesse condizioni. La pistola a fléchettes che avevo impugnato come un talismano contro il calamaro volante era sparita… Ricordai confusamente che pistola e zaino erano caduti dal kayak, quando il tornado aveva stracciato la paravela. Vestiti, torcia laser, razioni di cibo… tutto sparito.

Balenò il lampo, anche se il brontolio dei tuoni si era allontanato. Sotto la pioggia torrenziale notai un luccichio al polso.

"Il comlog. La maledetta banda metallica è di sicuro indistruttibile."

Cosa me ne sarei fatto, del comlog? Non avevo idea. Comunque, meglio di niente. Sotto il tamburellare della pioggia, mi portai il polso alle labbra e gridai: «Nave! Comlog acceso… Nave! Ehi!»

Nessuna risposta. Ricordai che durante la tempesta elettrica sul pianeta gioviano le spie luminose del comlog lampeggiavano per segnalare il sovraccarico. Provai un senso di perdita che non sapevo spiegarmi. La memoria della nave scaricata nel comlog era stata, nel migliore dei casi, un idiota sapiente, ma mi aveva tenuto compagnia per lungo tempo e mi ero abituato alla sua presenza. E poi mi aveva aiutato a pilotare la navetta che ci aveva portato da Fallingwater a Taliesin West. E…

Misi da parte la nostalgia e agitai di nuovo le braccia alla ricerca di un appiglio; alla fine mi aggrappai alle funi che penzolavano intorno a me come liane sottili. Funzionò. Di sicuro ì tiranti della para-vela si erano impigliati saldamente nei rami superiori e alcune funi sostenevano il mio peso, mentre col piede sinistro grattavo la scivolosa fibra di vetro per togliere dal relitto la gamba rotta.

Il dolore mi fece perdere i sensi per qualche istante, era intenso come quello provocato dal calcolo renale nei momenti peggiori, con una sola differenza: giungeva a ondate irregolari. Ma quando fui di nuovo in grado di ragionare non ero più nel relitto, ero aggrappato al tronco a spirale della palma. Qualche minuto più tardi, una microesplosione di vento imperversò nella giungla e il kayak cadde a pezzi: alcuni furono trattenuti dalle funi ancora intatte, altri ruzzolarono fra gli schianti nel buio.

"E ora?" mi domandai.

"Aspetta l’alba" mi risposi.

"E se non c’è alba, su questo pianeta?"

"Allora aspetta che il dolore passi."

"Perché dovrebbe passare? Il femore fratturato esercita trazione sul nervo e sul muscolo. Hai la febbre alta. Dio solo sa da quanto tempo eri lì svenuto nella pioggia e tra le frasche, con le ferite aperte a qualsiasi microbo assassino volesse entrare. Può darsi che sia iniziata la cancrena. Quel puzzo di vegetazione marcia potrebbe provenire da te!"

"La cancrena non si sviluppa così rapidamente, no?"

Nessuna risposta.

Reggendomi con il braccio sinistro al tronco di palma, cercai di tastare con la destra la coscia ferita, ma al minimo tocco gemevo e mi sentivo svenire. Se fossi svenuto di nuovo, con ogni probabilità sarei caduto dal ramo. Decisi di toccare la parte inferiore della gamba: in molti punti era insensibile, ma pareva in buone condizioni. Forse era solo una semplice frattura nella parte bassa del femore.

"Una semplice frattura, Raul? In un pianeta giungla, durante una tempesta che potrebbe essere permanente, per quel che ne sappiamo. Senza medikit, senza possibilità di accendere un fuoco, senza attrezzi, senza armi. Solo una fratturina alla gamba e qualche linea di febbre. Oh be’… purché sia davvero una semplice frattura."

"Chiudi quel cesso di bocca!"

Sotto la pioggia battente soppesai le alternative: restare lì aggrappato per il resto della notte — poteva significare dieci minuti o altre trenta ore — o cercare di scendere a terra.

"Dove aspettano gli animali da preda? Proprio un bel piano!"

"Ti ho detto di chiudere il becco. A terra potrei trovare un riparo dalla pioggia, un posto dove riposare la gamba, rami e liane per fare una steccatura."

«E va bene!» dissi a voce alta. Armeggiai nel buio per trovare una fune o una liana o un altro ramo e iniziare la discesa.


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