Esito solo un secondo. «E va bene» dico. Gli stringo la mano, guanto contro guanto.

Con occhiali a visione notturna sarebbe facile come una scivolata di giorno, che secondo me non è poi così facile. Ma nell’odissea fra i teleporter ho perduto i visori che avevo con me e non ne ho preso un paio di ricambio, anche se sulla nave c’era. "Porta due dermotute e due respiratori" mi aveva trasmesso Rachel per conto di Aenea. Non poteva accennare anche agli occhiali a visione notturna?

In teoria l’escursione di oggi doveva essere una tranquilla gita al mercato Phari, una notte trascorsa alla locanda e poi un viaggio di ritorno a spalle ben cariche, in compagnia di George Tsarong, Jigme Norbu e una lunga fila di portatori carichi dei pesanti materiali per il cantiere.

Forse, mi dico, ho avuto una reazione eccessiva alla notizia dell’arrivo della Pax. Ormai è troppo tardi. Anche se torniamo indietro, la discesa a corda doppia lungo le corde fisse sulla cresta K’un Lun sarebbe pericolosa come la scivolata. Questa, almeno, è la bugia che mi racconto.

Guardo A. Bettik applicare all’anello nella cinghia di cuoio del braccio sinistro il corto (38 centimetri) martello da ghiaccio e poi preparare la normale piccozza lunga 75 centimetri. Seduto a gambe incrociate sulla slitta, impugno con la sinistra il martello da ghiaccio e mi tiro dietro nella destra, come un timone, la più lunga piccozza. Rivolgo di nuovo all’androide il gesto a pollice alzato: guardo A. Bettik spingersi nel vuoto sotto il chiarore delle lune, ruotare una volta, poi raddrizzare con perizia la slitta, servendosi del martello corto, mentre volano schegge di ghiaccio, e lanciarsi a tutta velocità oltre il bordo e sparire alla vista in un minuto. Aspetto che fra l’androide e me ci sia un intervallo di circa dieci metri, quanto basta a evitare la spruzzaglia di ghiaccio del suo passaggio senza perdere di vista lui nella luce arancione dell’Oracolo; poi mi spingo giù anch’io.

Venti chilometri. A una velocità media di 120 all’ora dovremmo coprire la distanza in dieci minuti. Dieci minuti di gelo, adrenalina, nausea, terrore, reazioni in un microsecondo o morte.

A. Bettik è brillante. Esegue alla perfezione ogni curva, giunge basso alle alte pareti in modo che il suo apogeo — e il mio, qualche secondo più tardi — pencoli proprio all’orlo della parete di ghiaccio, esce di gran carriera dalla curva sopraelevata, proprio alla velocità giusta per il tratto discendente dritto, poi urta e salta la lunga rampa ghiacciata a una velocità tale che la vista mi si confonde, la serie di colpi mi risale lungo la spina dorsale al punto da farmi vedere doppio, triplo, e la testa mi pulsa dal dolore che ne deriva; poi la vista mi si confonde di nuovo per le schegge di ghiaccio che volano, che creano vividi aloni nel chiarore delle lune, mentre le stelle impassibili si rovesciano e turbinano sopra di noi, brillanti stelle in gara anche con il bagliore arancione dell’Oracolo e la vivida luce degli asteroidi catturati, e poi freniamo un poco e rimbalziamo pesantemente e corriamo di nuovo forte, ci arrestiamo in una stretta curva a sinistra che mi mozza il fiato, poi scivoliamo in una più stretta curva a destra, poi voliamo su un rettifilo così ripido che la slitta e io sembriamo sibilare in caduta libera. Per un minuto guardo dritto in basso le nubi di fosgene illuminate dalle lune, verdi come iprite nell’ingannevole chiarore, e poi tutt’e due sfrecciamo con stridore in una serie di spirali, stretti tornanti simili all’elica del DNA, con le slitte che vacillano sul bordo di ogni curva così che per due volte la mia piccozza colpisce nient’altro che aria gelida, ma ogni volta cadiamo di nuovo giù ed emergiamo (più che uscire dalle curve, siamo sputati fuori, come due proiettili di fucile sparati proprio sopra il ghiaccio) e poi ci incliniamo di nuovo in alto, usciamo accelerando in un rettifilo e schizziamo per otto chilometri di parete di ghiaccio sullo sperone Abruzzi e ora è la parete destra dello scivolo a fare da piano di corsa, la mia piccozza scaglia nello spazio verticale schegge di ghiaccio e la nostra velocità aumenta, aumenta ancora, diventa qualcosa di più di semplice velocità, e l’aria gelida e rarefatta penetra come una lama nella maschera e nelle vesti termiche e nei guanti e negli stivali riscaldati, mi intirizzisce la carne e mi lacera i muscoli. Sento la pelle ghiacciata della guancia tendersi sotto la maschera termica, ghigno come un idiota, una smorfia fra rictus di terrore e la pura gioia della velocità spensierata, braccia e mani in adattamento continuo, automatico, istantaneo, ai cambiamenti della piccozza timone e del martello freno.

All’improvviso A. Bettik scarta a sinistra e con le lame ricurve delle piccozze corta e lunga morde profondamente il ghiaccio tra un volo di schegge — non ha senso, una simile mossa lo manderà, ci manderà!, a rimbalzare contro la parete interna, la parete verticale di ghiaccio, e poi sibilando nel nero vuoto — ma mi fido di lui, prendo la decisione in meno di un secondo, pianto la lama della piccozza più grande, batto forte col martello da ghiaccio, mi sento il cuore in gola mentre slitto di lato e rischio di andare dritto anziché curvare a sinistra, sul punto di roteare su me stesso e a spirale giù dal ripiano di ghiaccio a 140 chilometri all’ora, ma correggo la corsa e mi stabilizzo e passo in un lampo davanti a un buco nel fondo di ghiaccio dove saremmo scivolati se non avessimo fatto quel folle scarto, piombando in una breccia del bordo larga sei otto metri, una botola verso la morte, e poi A. Bettik scende con fracasso dalla parete interna, con un lampo di piccozza nel chiarore delle lune frena la scivolata e continua a precipitarsi giù per lo sperone Abruzzi, verso l’ultima serie di curve sui pendii di ghiaccio dello Hua Shan.

E io lo seguo.

Sul monte Fiore siamo troppo intirizziti e scossi per alzarci dalla slitta; restiamo immobili al gelo per parecchi minuti. Poi, insieme, ci tiriamo in piedi, mettiamo a massa le cariche piezoelettriche, smontiamo le slitte, le pieghiamo e le riponiamo nel sacco da montagna. Percorriamo a piedi e in silenzio il sentiero di ghiaccio intorno alla spalla del monte Hua Shan: io stupito per l’immediata reazione e il coraggio di A. Bettik, l’androide in un silenzio che non so interpretare, ma che mi auguro di cuore non sia collera per la mia affrettata decisione di fare ritorno seguendo quel percorso.

Gli ultimi tre tratti in funivia sono una delusione, notevoli solo per la bellezza del chiarore delle lune sui picchi e sulle creste intorno a noi e per la difficoltà che trovo a manovrare con le dita intirizzite gli anelli a D dei freni.

Dopo il vuoto dei pendii superiori rischiarato solo dalle lune, Jo-kung pare incendiata di torce; evitiamo le impalcature principali e prendiamo le scale che portano nella forra. Allora siamo circondati dall’ombra proiettata dalla parete nord, interrotta da torce sfrigolanti poste lungo l’alta passerella che va al Hsuan-k’ung Ssu. Percorriamo lentamente l’ultimo chilometro.

Arriviamo proprio mentre Aenea sta per iniziare la sessione serale di discussioni. Nella piccola piattaforma a pagoda sono radunate circa cento persone. Aenea guarda sopra le teste della folla, vede il mio viso, chiede a Rachel di iniziare la discussione e viene subito nel ventoso vano di porta dove A. Bettik e io ci siamo fermati.


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