Lunedì in ufficio ai colleghi che domandavano se avevano fatto conquiste alla festa, i due rispondevano molto evasivamente.
FANTOZZI VA DAL SARTO IN TRANSILVANIA
Su consiglio del rag. Fonelli, Fantozzi decise di trascorrere i quattro giorni di ferie che gli restavano dall'anno scorso vicino al Passo Nero in Transilvania.
Era questo un paese aspro e inospitale, ricoperto di fitti e scuri boschi di abeti e pini candelabri, in una regione ricca di argentee cascate che le notti di luna illuminavano tetramente. Una sera Fantozzi decise di lasciare l'albergo “Postarich” (Hotel della Posta) dove alloggiava, in una linda stanzetta tutta in legno con stufa di ceramica e catinella e brocca per l'acqua, per incontrare al di là del Passo Nero un suo vecchio compagno di scuola, certo Folchignoni, un italo-bulgaro che faceva l'avvocato civilista nella cittadina di Pec oltre i monti Tenìbres.
Viaggiò tutta notte e arrivò a Pec, una tipica cittadina valacca, alle 10 del mattino. Folchignoni lo accolse sulla soglia di casa con un caldo abbraccio: “Vieni,” disse “accompagnami fin dal mio sarto, devo fare una prova”. Fantozzi l'accompagnò di buon grado, ma durante il tragitto in carrozza si accorse che l'amico appariva nervoso e spaventato. Il Folchignoni gli spiegò brevemente che il sarto si chiamava Gólam ed era potente e crudele: lui purtroppo era costretto ad andarci anche se era pieno di vestiti e mantelli di ogni tipo. Per Fantozzi era una situazione poco chiara, ma internamente si fece beffe dei timori dell'amico.
Entrarono con la carrozza nel recinto del castello del sarto. C'era un'aria strana e fredda. Un domestico a testa bassa li portò nella grande sala prove del 3° piano.
Mai aveva veduto tante meraviglie del Rinascimento italiano radunate in una sola stanza! E poi una statua in legno nero del Bustolón raffigurante uno schiavo dalmata, specchi veneziani e cristalli di Boemia, il tutto illuminato da una curiosa luce che filtrava attraverso delle grandi vetrate di alabastro.
Rimase muto ed estatico, mentre Folchignoni teneva gli occhi bassi. D'un tratto si udì uno squillo di trombe d'argento risuonare dai piani inferiori per tutto il castello e preceduto da un applauso registrato e da quattro valletti in camicia bianca e calzoni verdi comparve Gólam il sarto. Era un uomo di straordinaria statura e vigoria fisica. Folchignoni si chinò fino a terra e gli baciò l'anello scuro di onice che quello gli porse tenendolo con due dita. Il suo amico questa volta si faceva preparare un paio di calzoni alla zuava che gli erano stati imposti dal Gólam. Durante la prova Fantozzi ammirava le grandi scaffalature sulle quali erano infilate migliaia di pezze di stoffa multicolori. Ne stava palpando una quando avvertì alle sue spalle la mole del Gólam, il quale con una voce dolcissima gli chiese: “Vuole questo vestito, vero, signor Fantozzi?”. Lui rimase esterrefatto, sia per la musicalità della voce che usciva da quella montagna umana sia perché il sarto mostrava di sapere il suo nome benché nessuno li avesse ancora presentati. Dopo un attimo di smarrimento rispose: “No, grazie… Semmai in un altro momento”. Il volto del Gólam fu attraversato da un cortese sorriso.
Quando uscirono Folchignoni gli afferrò il braccio e lo implorò: “Ti prego, fatti fare quell'abito, fallo per me!”. Fantozzi rispose un po' stupito che non aveva soldi e che non aveva bisogno di un abito. Vista però la faccia disperata dell'avvocato lo pregò di riportarlo dal sarto. L'amico lo lasciò tutto solo al portale d'ingresso del castello e si allontanò frustando i cavalli.
Ora l'atmosfera era più ostile e l'aria scura era molto fredda. Fantozzi domandò al maggiordomo che gli aprì la porta: “Il Gólam?”.
“È su in bagno.” “Aspetto” disse lui.
“No, è in bagno che sta bagnando il suo abito, ha deciso di metterlo in prova. Ricordi, signore, la prima prova è venerdì sera, al crepuscolo!“ Fantozzi ritornò in città a piedi.
Era una bella sera di maggio e Pec era tutta illuminata dagli ultimi raggi di sole, era allegro e passeggiò a lungo per le strade del centro, guardando le ragazze e i mandorli in fiore. Aveva però dei cupi presentimenti.
La sera del giovedì venne un messo dal castello con una lettera perentoria del Gólam, che gli ricordava la prova dell'indomani al crepuscolo. Nella notte Fantozzi dormì poco. La giornata di venerdì la passò a leggere De consolatione philosophiae di Boezio e a bere yogurt bulgaro.
A sera, con un calesse a noleggio, si recò al castello. Quando entrò nella sala prove un incendio di cento soli al tramonto filtrava attraverso le vetrate di alabastro.
Attese senza timore, poi uno scoppio di trombe d'argento si propagò per tutto il castello fin dalle fondamenta, ed ecco, preceduto da venti valletti e da un lungo applauso registrato, il Gólam. Abbracciò Fantozzi secondo la moda balcanica e lo invitò a sedersi al suo fianco su un divano di broccato.
Un valletto portò del rosolio verde smeraldo. Il Gólam alzò il bicchiere e disse con voce dolcissima: “Al suo nuovo abito!”.
Fantozzi bevve il liquore di smeraldo e sentì una fitta dolorosa allo stomaco: era fortissimo!
Il Gólam urlò all'improvviso: “Si metta in mutande e calze!”.
Fantozzi aveva le calze bucate e arrossì violentemente quando i venti valletti in camicia bianca e pantaloni verdi vedendo i buchi risero sommessamente.
Lo portarono alla grande specchiera veneziana a quattro ante orientabili. Il Gólam batté le mani e dal fondo della sala avanzarono quattro inservienti che portavano il suo abito imbastito.
Il Gólam durante la prova era distratto. Guardava la luce del tramonto alle vetrate di alabastro e beveva liquore verde.
Fantozzi intanto “andò in nuca”.
Andare in nuca significa mettersi ad ammirare la propria nuca perché questa è l'unica occasione che avete di vederla: dal sarto!
Ad un tratto il Gólam fissò una manica di quell'abito rosso a foggia strana che gli stavano approntando e si levò una voce tremenda — non che non fosse dolce, ma perché carica di minaccia —: “Chi ha fatto quella manica?”.
“Il numero sei, Sire!” rispose un valletto.
Il Gólam fece un gesto per dire “chiamatelo qui”. Si sentì una serie di voci che scendeva dalla scala di marmo fino giù, nei profondi sotterranei del castello dove c'erano i laboratori… “Il sei… il sei… il sei… il seiiii… ”
Arrivò il sei. Era vestito da lavorante, mani guantate e grembiulone di cuoio. Teneva la testa bassa. Il Gólam gli chiese con grande dolcezza: “Secondo te questa manica è ben fatta?”. Il sei scosse la testa in segno di diniego. Il Gólam fece un gesto. I valletti legarono il sei ad una specie di trapezio di avorio e si misero da parte. Fantozzi guardava incuriosito. Il Gólam avanzò con una frusta di cuoio rosso e cominciò a percuotere ferocemente il lavorante mentre tutti i valletti ridevano ritmicamente.
Il sei tornò in laboratorio umiliatissimo.
Appena la prova ricominciò il Gólam si distrasse e guardò la finestra ancora rossa per il tramonto e bevve liquore verde. A un tratto si udì la sua voce: “Chi ha fatto quel colletto?”. E un valletto: “Il sei”… Cenno del Gólam. “Il sei… il sei… il sei” e il numero sei fu richiamato dai laboratori sotterranei. Entrò e si legò da solo al trapezio di avorio e il Gólam questa volta lo frustò con urla e rincorsa.
Il sei venne riportato nei laboratori a braccia.
Il Gólam lasciò cadere la frusta e triste si mise sul divano di broccato a bere liquore verde verso il tramonto.
Un inserviente distratto, intanto, andò in nuca. Vale a dire cominciò a guardarsi la nuca nella grande specchiera. Aveva una giacca di confezione dei grandi magazzini di Pec. Il Gólam alzò gli occhi, vide quella mostruosità ed equivocando, pensando che fosse l'abito in prova strappò la manica con un urlo selvaggio.
I valletti si ritirarono in silenzio. Il Gólam disse: “Signor Fantozzi, la sua prova oggi è finita. Ci rivedremo venerdì prossimo al crepuscolo”.