Nacchere impiegò quasi un’ora, ossia una riv, ricordò Chris, per fare il giro del cavo, e quando furono giunti alla loro destinazione incontrarono uno spettacolo impressionante. Innumerevoli tonnellate di cavo pendevano sulla loro testa, come se avessero costruito un grattacielo parallelamente al terreno.

Il terreno sotto il cavo era stranamente spoglio. Non poteva essere unicamente colpa della mancanza di sole; Gea era nota per la sua prolificità, e conteneva forme di vita adatte a tutti gli ambienti, compresa l’oscurità totale. Ma solo in prossimità dell’ascensore si poteva scorgere qualche forma di vita vegetale.

L’ascensore era una capsula scura e morbida, lunga quattro metri e alta tre; a una delle sue estremità c’era un’apertura che si poteva dilatare a volontà. L’altra estremità era appoggiata a uno sfintere di un tipo assai comune su Gea. Queste aperture davano accesso al sistema di circolazione, che, se si aveva coraggio, poteva essere usato come mezzo di trasporto. Le capsule erano prodotte biologicamente, come spesso avveniva nel caso degli oggetti che si trovavano su Gea, e avevano un sistema che forniva ossigeno alle persone contenute all’interno.

Chris entrò nella capsula e si sedette su una massa informe che poteva servire come divano. Dalle pareti della capsula spuntavano lunghi filamenti vegetali, utilizzabili come cinture di sicurezza, e Chris si affrettò a legarsi a essi. Era il suo terzo viaggio in quelle capsule, chiamate familiarmente l’«autoscontro» dai vecchi residenti di Gea. Sapeva che la capsula subiva forti scosse, quando la corrente cambiava direzione.

L’interno della capsula era bio-luminescente. Quando l’apertura si chiuse dietro di lui, Chris rimpianse di non essersi portato un libro. Lo aspettava un viaggio di tre ore, senza altra compagnia che i brontolii del suo stomaco e il pensiero che alla fine del tragitto avrebbe avuto un colloquio con una divinità.

Si udì una sorta di risucchio quando la capsula entrò nella prima della serie di vàlvole protettive contenute nel cavo. Ballonzolò per qualche tempo da atrio a ventricolo, finché, con un improvviso scatto di potenza, la capsula partì per il cielo.

Il ballerino entrava e usciva dal cono di luce del faro che lo illuminava. Era un ballerino di tip-tap, in cilindro e marsina, ghette e sparato. E come tutti i grandi ballerini, dava l’impressione che tutto fosse facilissimo. Con i tacchi e con la punta del bastone batteva un ritmo complesso, che echeggiava nelle profondità del mozzo.

Ballava a una cinquantina di metri dalla porta del normalissimo ascensore di cui si era servito Chris per l’ultimo tratto del suo viaggio. Si udì un suono di campanello, e Chris vide che la porta si chiudeva.

La presenza di quel ballerino gli dava un po’ fastidio. Gli pareva di essere entrato in una sala cinematografica dopo l’inizio dello spettacolo, e senza sapere che film dessero. Quel ballerino doveva riferirsi a qualcosa, doveva avere qualcosa in mente, anche se quella danza pareva separata dalla realtà, sufficiente in se stessa. La faccia era invisibile, nascosta dietro il cappello, e si vedeva soltanto la punta bianca del mento. Adesso si sarebbe tolto il cappello, pensò Chris, e sarebbe comparso un teschio vuoto, la faccia della morte. Oppure si sarebbe fermato, e, con una mano elegantemente inguantata, avrebbe indicato a Chris la direzione da seguire. Ma non indicò nessuna direzione, rifiutò di trasformarsi nel simbolo di qualcos’altro. Continuò a danzare, e basta.

Infine si mosse quando Chris si avvicinò a lui. Il cono di luce si spense, e se ne accese un altro, a venti metri di distanza. La sagoma dell’uomo si mosse nell’oscurità finché non giunse nuovamente a farsi rivestire di luce. Si accese un’altra luce, poi un’altra ancora, a intervalli di tempo sempre più brevi. Il ballerino saltò da una all’altra, fermandosi ogni volta, prima di passare alla successiva, a improvvisare qualche perentoria affermazione con i tacchetti. Infine le luci si spensero, il picchiettio dei tacchi sul marmo svanì.

Ora che i suoi occhi si erano abituati al buio, Chris cominciò a distinguere qualche altro particolare. In alto, molto al di sopra di lui, c’era una singola riga di luce rossa, netta come quella di un laser. Su tutti i lati, Chris vide che era circondato da sagome altissime: la collezione di cattedrali di Gea. Torri e pinnacoli, archi rampanti e demoni di pietra grigi, sullo sfondo di una nera, insondabile oscurità. C’erano solo le facciate, o quelle costruzioni erano complete anche all’interno? I libri non glielo avevano detto. Dicevano solo che Gea collezionava esempi architettonici, e che era specializzata in architettura sacra.

Udì un rumore di tacchetti e, quando il rumore si fece più vicino, scorse una donna che indossava una tuta bianca, come quelle delle inservienti della quarantena. Arrivò da dietro l’angolo di un tempio di pietre tozze, e laggiù si fermò, per illuminare la zona davanti a lei, grazie a una lampada portatile. La luce accecò Chris, lo sorpassò, ritornò su di lui, come per inchiodare un criminale in fuga, infine si abbassò.

— Da questa parte, prego.

Chris seguì la donna, camminando goffamente a causa della bassa gravità. La donna gli fece fare un cammino tortuoso in mezzo ai monumenti. Aveva stivali bianchi, di pelle, con tacchetti che battevano con grande sicurezza sul terreno. Pareva non incontrare alcuna difficoltà a camminare, mentre Chris tendeva a rimbalzare come una palla di gomma. Sulla superficie interna del mozzo, la rotazione assicurava soltanto un quarantesimo di gravità; Chris pesava pochi chilogrammi.

Si chiese chi fosse quella donna. Durante la quarantena, non gli era mai venuto in mente che gli inservienti potessero non essere umani. Ma, lassù, la cosa era diversa. Sapeva che Gea era capace di costruire a propria volontà le creature viventi. Poteva creare nuove specie, come i titanidi, la cui razza non aveva ancora due secoli, e dare loro il libero arbitrio e il beneficio del suo disinteresse. E poteva creare singoli individui altrettanto liberi e incontrollati.

Ma creava anche quelli che erano chiamati gli strumenti di Gea. Questi erano delle semplici estensioni di lei. Li usava per costruire le sue copie di cattedrali, scala 1:1, per comunicare con le piccole forme di vita, per fare, insomma, tutto quello che non riusciva a fare con la sua normale ecologia esistenziale. E presto lui, Chris, avrebbe incontrato uno di questi strumenti, che gli avrebbe detto di chiamarsi Gea. In realtà, Gea era tutt’intorno a lui, ma non poteva certo mettersi a parlare con i muri.

Chris guardò ancora bene la donna alta che lo accompagnava, con lunghi capelli neri. Era uno «strumento», oppure una vera donna?

— Di dove siete? — le domandò.

— Del Tennessee.

Gli edifici erano stati costruiti senza un piano preciso. Alcuni erano posti l’uno accanto all’altro, in una sorta di baraccopoli del cielo, altri erano alquanto intervallati. Data la disposizione a casaccio, c’erano strette stradine dove ci si aspettava una piazza, e viceversa. S’infilarono tra una copia di Chartres e una pagoda senza nome, poi sbucarono in un enorme piazzale pavimentato di marmo, che portava a Karnak.

L’autore del libro che Chris aveva letto ammetteva di non sapere perché Gea costruisse quelle repliche. E perché, dopo averlo fatto, le lasciasse al buio, dove nessuno poteva vederle. E a passare in mezzo a esse ci si sentiva come una formica perduta sul fondo polveroso della scatola dei balocchi di qualche bambino. Le costruzioni potevano essere l’equivalente dei segnapunti di un gioco del Monopoli per iper-miliardari.

— Quello è il mio favorito — disse a un tratto la donna.

— Quale?

— Quello — disse lei, puntando la lampada. — Statunitense.

Aveva un aspetto familiare, ma dopo avere visto tante costruzioni in così breve tempo, tutti i mucchi di pietra cominciavano ad assomigliarsi.


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