— Il mio demone.

— Va bene. Quando una non vuole rispondere… Ma tienila ben stretta. Si comincia.

Ora che cominciò lentamente ad aprire le grandi ali, le sue braccia si irrigidirono come morse. Robin riacquistò bruscamente il peso, e la sua caduta libera divenne un volo sospesa a un aquilone. Non riuscì più a tenere le gambe ben tese. Dovette lasciare che si abbassassero, e quel movimento spostò l’equilibrio di tutti e due; presero a dondolare lentamente attorno al baricentro delle ali dell’angelo, posto al di sotto delle sue scapole.

L’angelo cominciò lentamente a virare, e il terreno parve inclinarsi sotto di loro. A quanto capì Robin, il suo compagno si dirigeva verso il fiume Ofione, nel punto dove passava sotto il cavo ancorato alla Casa del Vento. In quella zona, il fiume era largo, profondo e placido, e correva in direzione sud-est. Per poterlo fare, l’angelo doveva prima spostarsi un poco a sud, e poi un poco a nord, per seguire il corso del fiume. A quel punto doveva poi allungare la traiettoria, volando quanto più possibile parallelo al terreno. Se non ci fosse stato l’angelo, Robin avrebbe toccato terra molto prima di arrivare al fiume.

Passarono al di sopra di un gruppo di crateri. Robin non ne domandò l’origine. Non potevano essere stati prodotti dalla caduta di qualche persona; novanta metri al secondo non potevano dare una così grande energia cinetica. Ma un oggetto più pesante, gettato dal punto da cui era partita lei, sarebbe stato in grado di farlo.

Adesso l’angelo allargò le ali al massimo della loro ampiezza. Sotto di loro, il terreno era coperto di collinette e di foreste, ma più avanti si poteva scorgere la distesa del fiume. Pareva impossibile che riuscissero a raggiungerlo, e non c’era la possibilità di riprendere quota e di provare una seconda volta. L’angelo poteva sollevare poco più del proprio peso.

— Al momento dell’impatto, penso di poter ridurre a settanta ottanta chilometri l’ora la tua velocità — le gridò lui nell’orecchio. — Quando sarò certo di raggiungere il fiume, cercherò di frenare con dei brevi scatti. Entrerai nell’acqua a volo radente.

— Non so nuotare.

— Neppure io. A quel punto, dovrai provvedere con i tuoi propri mezzi.

Fu un’esperienza assai strana. L’angelo la strinse con maggiore forza, e Robin trasse un profondo respiro, con il cuore che le batteva come un maglio. Poi ripresero a procedere in volo librato, molto al di sopra delle acque scure del fiume. Un forte scossone, e lei, istintivamente, tese le braccia in avanti, ma la terra era ancora lontana. Il terzo strattone fu il più forte di tutti. Per alcuni secondi, Robin non riuscì a riprendere fiato.

Intanto la riva si avvicinava, alla loro destra. Più avanti, il fiume curvava verso ovest.

Le parve di colpire l’acqua di schiena, ma era troppo scossa per capirlo. La successiva cosa che riuscì a ricordare, fu che era immersa nell’acqua fangosa e che agitava le braccia in direzione della luce.

Il nuoto, a quanto le parve di capire, doveva essere un’attività faticosa. Ma era stupefacente il numero di cose che si riusciva a fare quando si era nell’acqua fino al naso.

Quando Robin uscì faticosamente dall’acqua, vide che l’angelo la stava aspettando, in piedi sulla riva. Non riusciva a stare in piedi bene, perché non aveva i piedi adatti a quel tipo di operazione. I suoi piedi erano simili a zampe di uccello, con dita lunghe e sottili, fatte per tenersi ai rami degli alberi. Robin percorse un paio di metri sull’argine, poi si lasciò cadere a terra.

— Ascolta, regalami questa — disse l’angelo, prendendole la borsa. — Il lavoro che ho fatto merita un premio, non puoi negarlo. — Aprì la borsa, emise un suono soffocato, si affrettò a richiuderla e la lasciò cadere a terra, facendo un passo indietro.

— Ti avevo avvertito — disse Robin, con voce stanca.

L’angelo era irritato. — Allora, cos’altro hai?

— Da qualche parte, devo avere dei soldi. Prendili tutti.

— E cosa me ne faccio? L’unico posto dove potrei spenderli è in quella gabbia di matti che hanno costruito i titanidi.

Robin si mise a sedere, e si passò le dita fra i capelli bagnati, per toglierseli dagli occhi.

— Parli bene l’inglese — gli disse.

— E cosa ne sai? Si possono dire delle cose bellissime in questa lingua, se c’è qualcuno che ha voglia di ascoltarle.

— Scusa se ti ho offeso, ma non l’ho fatto apposta. Ero preoccupata.

— Adesso non hai più motivo di esserlo.

— Te ne sono grata. Mi hai salvato la vita, ti ringrazio.

— D’accordo, d’accordo. Ho imparato l’inglese da mia nonna, detto per inciso. Mi ha anche insegnato che non si dà niente per niente. Che cos’hai, oltre al denaro?

Aveva un anello, un dono di sua madre. Lo fece vedere all’angelo. Lui lo prese e lo esaminò con poca convinzione.

— Va bene. Cos’altro hai?

— Non ho altro. Solo i vestiti che indosso.

— Prendo quelli.

— Ma il resto della mia roba…

— È all’albergo. Vai da quella parte, e ci arrivi. La giornata è tiepida. Fatti una bella camminata.

Robin si sfilò gli stivali e li svuotò dell’acqua che contenevano. La maglietta venne via senza difficoltà, ma le fu difficile togliersi i calzoni bagnati.

Lui li prese, e rimase per qualche istante ad ammirare Robin.

— Se solo sapessi quanto mi piacciono le donne umane grasse.

— Questa donna, puoi scordartela. E, poi, cosa intendi dire, con «grasse»? Io non sono affatto grassa. — Era turbata dal modo in cui lui la guardava: una sensazione del tutto nuova per lei. Robin non aveva più pudore di un gatto.

— Tu hai il venti per cento di grasso, forse più. Ne sei ricoperta. Sei tutta rigonfia. — Sospirò. — E quelli sono i disegni più strani che abbia mai visto. — S’interruppe, poi sorrise lentamente. — Se non altro, sono riuscito a vederti. Buon atterraggio. — Le gettò i vestiti e balzò in aria.

La forza delle sue ali per poco non fece cadere a terra Robin, e sollevò un turbine di foglie secche e di polvere. Per un momento, la sua maestosa apertura alare oscurò il cielo; poi salì sempre più in alto, divenne una sottile sagoma umana avvolta in un tumulto di penne.

Robin si mise a sedere, tremando per le emozioni di quegli ultimi minuti. Diede un’occhiata alla borsa, che si dimenava tutta, a causa degli sforzi di un anaconda che, totalmente scombussolato, cercava di riguadagnare la libertà. Nasu avrebbe dovuto aspettare. Del resto, il serpente non sarebbe certamente morto di fame, neppure se l’attacco fosse durato qualche giorno.

Riuscì ancora a girarsi con la faccia a terra, per paura di accecarsi fissando il sole, e presto perse ogni controllo del proprio corpo. Il giorno senza tempo di Iperione continuò a svolgersi mentre lei si contorceva sotto la luce ambrata del sole, completamente inerme, timorosa che l’angelo facesse ritorno per stuprarla.

9

Lavoratrice autonoma

Dal suo posto d’osservazione sulla piattaforma di roccia, Gaby Plauget attendeva che diminuisse il fragore dell’immensa diastole. Un normale ciclo di aspirazione di Aglaia produceva un suono come quello delle cascate del Niagara. Oggi il suono ricordava invece quello delle bolle che gorgogliano da una bottiglia vuota, tenuta sott’acqua. La valvola di aspirazione, in cui si era infilato un albero titanico, era quasi completamente sommersa.

Quel luogo era chiamato le Tre Grazie. Era stata la stessa Gaby a darle quel nome, molti anni prima, in base a un gioco di parole che aveva senso soltanto per lei. A quell’epoca i pochi terrestri che abitavano su Gea erano ancora occupati a dare nomi umani alle località geografiche, e di solito rispettavano la vecchia convenzione di usare, come fonte, la mitologia greca. Gaby ricordava che le Grazie assistevano Afrodite-Venere nella sua toeletta, e pur sapendo la differenza tra la toeletta di una signora e la toeletta intesa come locale sanitario, si era detta che Ofione, il fiume circolare, era la toeletta di Gea e lei l’idraulico. Prima o poi, tutto finiva in quel fiume. Quando si intasava, era Gaby a sturarlo.


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