Ora, osservando il cratere di Grandioso che si stendeva sotto di lei, le parve di capirlo. Buona parte del carico doveva essere costituito di costumi fatti di gemme. Anche quando erano nudi, i titanidi cercavano di rendersi appariscenti come caleidoscopi al neon, e questo, per un titanide, non era mai abbastanza. Anche in città, senza che ci fosse una particolare occasione, riuscivano sempre a mettersi addosso almeno un chilo di pendagli, collanine, braccialetti e campanellini vari. Dove avevano la pelle nuda, la dipingevano; dove avevano del pelo, lo tingevano, facevano treccioline, lo decoloravano. Si foravano non solo le orecchie, che erano più lunghe di quelle dei terrestri, ma anche le narici, i capezzoli, le grandi labbra e il prepuzio, e ci infilavano qualcosa che luccicasse o che brillasse. Si foravano gli zoccoli, che erano durissimi e rosso-trasparenti come rubini, e inchiodavano in essi gemme di colori contrastanti con lo sfondo. Era raro vedere un titanide non adorno di qualche fiore appena colto: lo portavano infilato nei capelli o dietro le orecchie.

Ma, a quanto pareva, quello che Robin aveva visto fino a quel momento non era niente. Perché in occasione del Festival Rosso i titanidi gettavano davvero al vento ogni ritegno e finalmente inalberavano i loro veri, sfarzosi ornamenti.

La musica raggiunse un acme di pulsazione e poi svanì, anche se continuò a echeggiare sulla roccia. A Robin pareva ingiusto lasciar morire una cosa viva come i suoni che aveva udito fino a quel momento, e infatti non li lasciarono morire. La banda attaccò Bandiera nazionale di E.E. Bagley. Da quel momento in poi, la musica non si interruppe più.

Ma, durante la brevissima pausa, Robin vide che qualcuno stava salendo fino a lei. Provò fastidio per quella che si annunciava come un’imminente interruzione, perché certo avrebbe dovuto scambiare qualche parola con la nuova venuta, che indossava camicia e calzoni verdi e stivali di cuoio consumati, mentre era salita lassù per ascoltare coscienziosamente le esecuzioni. La donna scelse quel momento per guardarla sorridendo. Il gesto pareva chiedere: "Posso unirmi a te?" e Robin annuì.

Certo, quella donna aveva una notevole agilità. Si arrampicò sulla roccia quasi senza usare le mani, mentre Robin, quando era salita, aveva impiegato quasi dieci minuti.

— Salve — disse, mettendosi a sedere accanto a Robin, con le gambe all’esterno della cengia. — Spero di non disturbare.

— Va benissimo. — Robin guardava la banda.

— In realtà, non marciano affatto — disse la donna. — La musica li agita troppo, e non riuscirebbero a tenere il passo. Se Sousa li vedesse, si metterebbe a urlare per la disperazione.

— Chi?

La donna rise. — Non farti mai sentire da un titanide. John Philip Sousa, il sesso e l’alcool sono ai primi posti della loro hit parade. E ti confesso che lo fanno piacere perfino a me, quando lo suonano come adesso.

Robin non sarebbe stata in grado di riconoscere una vera banda musicale in marcia neppure se l’avesse avuta sotto gli occhi, e la cosa le importava poco. I salti e le danze dei titanidi le andavano benissimo. Sousa doveva essere l’uomo che aveva scritto la marcia, ma anche questo aveva poca importanza. La donna però aveva detto che la musica la colpiva emotivamente, anche se lei non lo voleva, e ricordava che la stessa cosa era successa anche a lei. Voltò la testa verso la nuova venuta, per studiarla con attenzione.

La donna non era molto più alta di lei, e questo era una gradita novità. Da quando era arrivata su Gea, Robin aveva già visto troppi giganti. Vista di profilo, pareva serena e tranquilla, ma tutto il suo portamento smentiva quella sua strana aria innocente. Poteva avere solo pochi anni più di lei, ma Robin aveva l’impressione che la realtà fosse assai diversa. Il colore leggermente scuro della carnagione doveva essere frutto dell’abbronzatura. Adesso che era seduta, l’unica parte del corpo che muoveva erano gli occhi, cui non sfuggiva alcun particolare. Se pareva rilassata e senza nerbo, era solo un’illusione.

Si lasciò esaminare da Robin per un ragionevole periodo di tempo; poi mosse leggermente la testa e rivolse tutta l’attenzione su di lei. Gli occhi sorrisero prima delle labbra, ma quando queste si schiusero, Robin scorse una fila di denti bianchi e regolari. La donna le porse la mano, e Robin gliela strinse.

— Sono Gaby Plauget — disse.

— Che il sacro flusso ci… — Robin sgranò gli occhi.

— Non dirmi che la Congrega si ricorda ancora di me. Davvero? — Il sorriso si allargò, e strinse ancor di più la mano di Robin. — Tu devi essere Robin dalle Nove Dita. È tutto il giorno che ti cerco.

12

La sposa prescelta

Quando ne venne fuori, Chris era nel bel mezzo di una danza. Funzionando per automatismi, il suo corpo continuò a muoversi come si era mosso fino a quel momento, ma in pochi secondi Chris si fermò, con il risultato di essere violentemente spintonato alle spalle da un grosso titanide azzurro. Sulla faccia, Chris aveva ancora un largo sorriso, e si affrettò a ritornare serio.

Qualcuno lo afferrò per il gomito e lo tirò via dalla fila dei danzatori, lo fece girare su stesso; Chris si trovò con la faccia quasi piantata contro il seno di un altro titanide.

— Ho detto che dobbiamo partire subito, per non arrivare tardi alla mia rivista — disse il titanide, che era una femmina, e abbassò in modo strano la manona. Nel vedere che lui non accennava ad alcuna mossa, si passò l’altra mano nei capelli, che erano lunghi e di colore rosa, e sospirò disperata. — Su, monta, Chris! Sbrigati!

Un impulso che non avrebbe saputo spiegare lo portò a sollevare il piede, scalzo, e a posarlo nella mano della titanide. Forse era un riflesso fantasma, il corpo che ricordava ancora un’abitudine che la mente aveva dimenticato. Ma era la cosa giusta da fare. Lei lo sollevò; lui si afferrò alla spalla della titanide e si trovò in groppa. La pelle della titanide era priva di peli, in predominanza gialla, ma picchiettata di macchioline scure, come una banana matura. Sotto le gambe, dove erano in contatto con il dorso della titanide, Chris sentiva la giusta temperatura e la giusta consistenza: come pelle umana, ma stesa su una struttura diversa.

Lei ruotò il torso e si abbassò da un lato, in modo da mettergli il braccio sulle spalle. Negli occhi grandi, quasi a mandorla, si leggeva una grande eccitazione. Chris rimase assai stupito quando lei lo baciò sulle labbra, premendo forte. Era talmente grossa che a Chis pareva di essere ritornato un bambino di sei anni.

— Porta fortuna, tesoro. Le coppie e il modo sono già fissati. Adesso, basta solo un po’ di fortuna, e il mio portafortuna sei tu. — Lanciò un urlo e scavò la terra con le zampe posteriori, schizzando avanti in pieno galoppo. Chris si afferrò alla vita e continuò a tenersi forte.

Non era la prima volta che gli capitava qualcosa di simile. Già altre volte era uscito dall’amnesia mentre era in piena corsa, e pensava di essere preparato a tutto.

Ma non era preparato a quello che vedeva adesso attorno a sé.

L’intero universo pareva pieno di luce chiara, di polvere, titanidi, tende e musica. Soprattutto musica. Ne attraversarono una serie di ondate, incontrando quelle che parevano tutte le forme inventate dagli uomini, e quelle, in numero ancora maggiore, inventate dai titanidi. Pareva destinata a diventare una follia acustica, ma così non era. Ciascun gruppo teneva conto della musica suonata dal gruppo adiacente. Con una sorta di gioco di prestigio in musica, si passavano tra loro la frase musicale, facevano variazioni sul tema, e poi lo rimandavano indietro per ulteriori elaborazioni, ma a un ritmo e a un tempo diversi. Chris e la sua titanide attraversarono intere famiglie di musiche: dal ragtime alla quadriglia, allo swing e a vari generi di jazz freddo, con occasionali inserzioni di interventi non-umani, che, di volta in volta, potevano essere in sordina o a pieno volume.


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