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Ospitalità

L’interno della tenda della Maga era fresco e in penombra. Il tetto era spesso e opaco, mentre i teli laterali erano di seta bianca, aperti per lasciar passare la brezza. In alto c’era un ventaglio che andava avanti e indietro, e che agitava i nastri e gli scialli di cui era adorno il palo centrale. Seduti su enormi cuscini c’erano Gaby, Robin, Salterio e Chris, che aspettavano che la Maga si decidesse ad arrivare.

In occasione del Festival, i titanidi volevano che la tenda della Maga fosse quanto più sfarzosa possibile. Sul terreno erano stesi numerosi tappeti annodati a mano, uno sull’altro, e in cima a tutti ce n’era uno che mostrava la grande ruota a sei raggi. Due delle pareti della tenda erano interamente costituite di cuscini. La terza faceva da sfondo al Trono di Neve, costituito di sacchetti trasparenti da venti chili di Polvere degli Altopiani, la miglior cocaina dell’universo conosciuto e principale prodotto esportato da Gea. A ogni Festival, i titanidi costruivano un nuovo trono, accatastando i sacchi di polvere cristallina come quando si fa un argine con i sacchetti di sabbia.

Su due bassi tavoli erano ammucchiate le delizie della cucina titanide, alcune fumanti, altre infilate in secchielli di argento pieni di ghiaccio tritato e coperti di goccioline di vapore acqueo condensato. Alcuni titanidi andavano e venivano in continuazione, portando via i piatti che si erano raffreddati, e sostituendoli con altri sempre nuovi.

— Dovresti assaggiarne un po’ — consigliò Gaby. Vide che Chris sollevava di scatto la testa, e sorrise. Iperione faceva sempre quello scherzo ai nuovi venuti. La luce non cambiava mai, e la gente rimaneva sveglia quaranta o cinquanta ore di fila, senza accorgersene. Si chiese quante ore fosse riuscito a dormire, il poveretto, dall’inizio del Festival. Ricordava i primi tempi passati su Gea, quando lei e Cirocco continuavano a marciare finché, letteralmente, crollavano. Era passato molto tempo da allora. Ricordava che a quell’epoca si era sentita vecchissima. Adesso si chiedeva se era mai stata così giovane.

Lo era stata davvero, un tempo, sulle rive del Mississippi, nei pressi di New Orleans. C’era una vecchia casa, con una soffitta polverosa dove lei andava a nascondersi ogni sera, per non sentire gridare sua madre. C’era una finestra, e lei l’apriva per far passare l’aria. Con la finestra aperta, i fischi dei barconi coprivano i suoni provenienti dai piani inferiori, e lei poteva vedere le stelle.

Più tardi, dopo la morte della madre e l’arresto del padre, gli zii l’avevano portata in California. E sulle Montagne Rocciose aveva osservato per la prima volta la Via Lattea. L’astronomia era diventata per lei un’ossessione. Leggeva tutto quello che trovava, saliva con l’autostop fino all’osservatorio di Monte Wilson, imparava la matematica anche se il sistema scolastico della California faceva di tutto per fargliela odiare.

Non si concesse mai delle amicizie o degli affetti. Quando sua zia se ne andò, prese con sé i quattro figli, ma non Gaby. Non la voleva neppure lo zio, e lei se ne andò via con l’assistente sociale senza voltarsi indietro neppure una volta. A quattordici anni le piaceva andare a letto con un compagno che aveva un telescopio. Poi il ragazzo vendette il telescopio, e lei lo piantò. Il sesso la annoiava.

Crescendo, divenne una donna tranquilla, e molto carina. La bellezza per lei era un fastidio, come lo smog e la povertà, ma trovò la maniera di porre rimedio a tutt’e tre le cose. Scoprì un certo genere di occhiataccia per togliersi dai piedi i ragazzi prima che le dessero fastidio. Sui monti non c’era smog, e lei cominciò a recarsi lassù portandosi un telescopio nello zaino. Inoltre, l’università "Cal Tech" era sempre disposta ad accettare gli studenti squattrinati, perfino quelli di sesso femminile, se dimostravano di essere i migliori di tutti. E così lo furono la Sorbona, Monte Palomar, la Zelenchukskaya e Copernico.

A Gaby non piacevano i viaggi. Ma si era recata sulla Luna perché lassù si potevano effettuare osservazioni perfette. Quando vide il progetto del telescopio che sarebbe stato inviato a studiare Saturno, si disse che doveva essere lei a usarlo. Ma attorno a Saturno trovarono Gea, e la catastrofe. Per sei mesi, l’equipaggio del Ringmaster rimase chiuso nel nero ventre di Oceano, il semi-dio ribelle di Gea, alternandosi tra il sonno e la privazione sensoriale totale. Per Gaby, quei sei mesi furono come venti anni, perché li visse tutti, un istante dopo l’altro. Ebbe il tempo di capire che non aveva una singola amicizia, che non amava nessuno e che nessuno amava lei. E che la cosa aveva importanza.

Tutto questo era successo settantacinque anni prima. Da allora, lei non aveva più guardato una stella, e non ne aveva neppure sentito il bisogno. Cosa farsene delle stelle, quando si hanno gli amici?

— Che cosa c’è? — domandò Robin.

— Niente. Ero solo inciampata nei miei ricordi. Succede spesso, a noi vecchietti.

Robin le rivolse un’occhiata carica di esasperazione, e Gaby sorrise. Quella ragazza le piaceva. Raramente le era capitato di incontrare una persona altrettanto piena di orgoglio e di ostinazione, e con così tanti lati spigolosi nel carattere. Era più strana di un titanide, nel suo modo di vedere le cose: ignorava gran parte di quella che tutti chiamavano la cultura "umana", sapeva di ignorarla, e univa un cieco sciovinismo all’ansia di imparare. Parlando con Robin, bisognava andarci con i piedi di piombo. Non c’era da fidarsi delle sue reazioni, finché non ci si era guadagnata la sua fiducia.

Anche Chris le era simpatico, ma se da un lato sentiva il bisogno di proteggere Robin da se stessa, dall’altro desiderava proteggere Chris dal folle mondo esterno. Quel mondo non poteva avere molto senso per lui, eppure Chris continuava ugualmente a lottare, pur tra mille handicap, e la sua visione del mondo era completamente distorta dall’abitudine di tutta la vita: essere dominato da una serie di spiriti malevoli che parlavano con la sua voce, guardavano con i suoi occhi, e talvolta colpivano con i suoi pugni. Chris non si fidava più di lasciarsi coinvolgere negli affetti, perché sapeva che uno dei suoi alter ego l’avrebbe presto tradito. Chi si sarebbe fidato di lui, dopo che lui avesse rivelato ai quattro venti i grandi o piccoli segreti d’amore?

Chris si accorse che Gaby lo guardava, e le rivolse un sorriso impacciato. I capelli lisci, color castano chiaro, tendevano a scivolargli sull’occhio sinistro, e questo lo portava a scuotere spesso la testa per allontanarli. Era alto, almeno un metro e ottantacinque se non un metro e novanta, di costituzione media, con una faccia tirata che poteva sembrare crudele finché non si scorgeva la tristezza del suo sguardo. La prima impressione di durezza veniva data dal naso leggermente appiattito e dalla fronte sporgente.

Anche come costituzione era abbastanza robusto, ma in quel momento, sia a causa dei calzoncini corti che portava, sia a causa della pelle assurdamente bianca, aveva un aspetto talmente funereo che era impossibile pensare a lui come a una minaccia. Braccia e gambe erano muscolose, e aveva buona schiena, ma attorno allo stomaco aveva ancora troppa ciccia. Non era peloso, e Gaby preferiva che non lo fossero.

Tirandone un bilancio conclusivo, Gaby capiva perché Valiha lo trovava attraente. Si domandò se Chris l’avesse già capito oppure no.

Arrivò di gran carriera Cirocco, seguita dai suoi due titanidi identici. Si guardò attorno, si asciugò la faccia con un tovagliolo umido, e si avviò verso un angolo della tenda.

— Dov’è Valiha? — chiese. — E non doveva esserci un titanide per Robin? — Si sfilò la coperta e andò dietro un paravento di tela, alto fino alle spalle. Da una doccia appesa sopra di lei incominciò a scorrere l’acqua. Sollevò la faccia in direzione del getto e scosse la testa. — Scusatemi ancora un momento, ragazzi. Fa un caldo infernale, là fuori.


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