Nasu si contorceva per uscire dalla borsa. Robin la aprì e lasciò che il serpente scivolasse un po’ sulla sabbia, sicura che non sarebbe andato lontano. Si frugò in tasca e trovò un pezzo di torrone avvolto in una foglia, lo tirò fuori dall’involucro e cominciò a succhiarlo. La sabbia era troppo fredda per i gusti di Nasu, che si avvolse attorno alla caviglia di Robin.

Cirocco era ferma davanti alla parete, senza muoversi, e fissava un’alta spaccatura verticale. Robin ne seguì con gli occhi il decorso, e capì che era lo spazio tra due fili del cavo. L’area in cui si trovavano, e che un tempo era uno di quei fili, era chiusa da tre di essi. Un’altra grande fessura come quella osservata da Cirocco si poteva scorgere tra il filo centrale e quello alla loro sinistra. Al di sotto della superficie del mare, evidentemente, i fili dovevano distaccarsi l’uno dall’altro. Ricordò la fotografia della montagna conica di Iperione, e della foresta che la copriva, sorte entrambe nella zona dove i fili del cavo si allargavano. Su quell’isola, invece, lo spazio tra i fili non superava i dieci metri, ed era parzialmente chiuso dalle conchiglie.

Vide che Gaby era ritornata, e che portava con sé un lume a petrolio. Gaby corse da Cirocco e glielo consegnò. Vide che confabulavano tra di loro, ma il suono della risacca le impedì di cogliere le parole. Cirocco diceva poche frasi, e chi parlava era soprattutto Gaby, e pareva piuttosto preoccupata. Cirocco continuava a scuotere la testa.

Alla fine, fu Gaby a cedere. Fissò Cirocco per un momento, e poi le due donne si abbracciarono: Gaby dovette rizzarsi in punta di piedi per baciare la vecchia compagna. Cirocco la abbracciò a sua volta, poi si infilò nell’apertura tra i fili del cavo. Si vide ancora per qualche tempo il chiarore del suo lume, e infine anche quello scomparve.

Gaby si recò sul bordo della spianata circolare, lontano da tutti. Si sedette a terra e si prese la testa fra le mani. Per due ore, non si mosse più.

Durante l’assenza di Cirocco, trascorsero il tempo riposandosi e giocando. La cosa non diede alcun fastidio ai titanidi, e neppure a Chris. Gaby rimase in preda al nervosismo per gran parte del tempo. Robin divenne sempre più annoiata a ogni ora che passava.

I titanidi le insegnarono a intagliare il legno, ma Robin non aveva pazienza. Voleva chiedere a Chris di insegnarle a nuotare, ma non intendeva rimanere nuda davanti a lui. Gaby risolse il problema suggerendole di mettersi il costume da bagno, e ne fu rapidamente improvvisato uno. L’idea di un costume da bagno era assolutamente inedita per Robin, come quella di mettersi le scarpe per fare la doccia, ma il costume fece il suo dovere. Prese tre lezioni di nuoto nel laghetto centrale. In cambio, insegnò a Chris la lotta, arte che lui non conosceva. Dovettero sospendere provvisoriamente le lezioni quando si accorse che era molto facile colpire i testicoli e che dopo colpiti facevano molto male. Le dispiacque sinceramente, ma come poteva saperlo?

Ci furono soltanto due episodi a ravvivare quei due giorni. Il primo si verificò subito dopo la partenza di Cirocco, quando Gaby parve desiderosa di un po’ di moto. Li condusse lungo un sentiero molto stretto, che portava all’alta piattaforma che correva tutt’attorno al cavo. Per un’ora, tutti e sette procedettero con cautela su un passaggio impervio e accidentato, a strapiombo sul mare, cinquanta metri più in basso. Fecero quasi mezzo giro del cavo, prima di raggiungere un punto dove il passaggio era interrotto. E lì, in una nicchia tra due fili del cavo, videro una bassa e tozza colonnina di pietra, su cui poggiava la statua dorata di una creatura aliena.

A Robin fece venire in mente la Regina Rospa di una favola della sua infanzia. Si trattava chiaramente di una creatura acquatica, con sei zampe che terminavano con larghi piedi palmati. Accovacciata sul suo piedestallo, fissava il mare, gobba e piatta. Sulla sua superficie non cresceva alcuna forma di vegetazione, ma portava collane di alghe ormai secche. Aveva un solo occhio, ora ridotto a un’orbita vuota.

— È qui da almeno diecimila anni — spiegò Gaby. — E in passato c’era un occhio, nell’orbita. Era un diamante grosso come la mia testa. L’ho visto una volta, e pareva emanare una luce sua propria. — Sferrò un calcio alla sabbia, e Robin, con grande stupore, vide uscire una creatura grande come un grosso cane, che si affrettò a scappare. Aveva sei zampe palmate, era gialla e assai brutta, e sotto la pelle si scorgeva un mucchio di ossa. Era alquanto diversa dalla statua, ma pareva conservare con essa una vaga rassomiglianza. Si voltò una volta sola, spalancò la bocca, mostrando varie migliaia di denti gialli e lunghi, soffiò minacciosamente contro di loro e continuò ad allontanarsi.

— Quelle creature erano così feroci che un lupo avrebbe avuto un attacco cardiaco soltanto a guardarle. Erano così veloci che, prima ancora di riuscire a scorgerle, ti trovavi già sbudellato. Si nascondevano sotto la sabbia come quella che abbiamo visto. Quando la prima ti saltava addosso, saltavano fuori anche le altre, da tutte le parti. Ne ho visto una che era stata colpita da sette fucilate, ma che è ancora riuscita a uccidere l’uomo che le aveva sparato.

— Che fine hanno fatto? — chiese Chris.

Gaby raccolse da terra una grossa conchiglia e la gettò contro la statua. Dalla sabbia sbucò immediatamente una decina di teste, che spalancavano minacciosamente la bocca. Robin impugnò la pistola, ma non fu necessario. Le creature si guardarono attorno, confuse, poi ritornarono a nascondersi.

— Erano qui per proteggere l’occhio dell’idolo — dise Gaby. — La razza che lo ha costruito è sparita da molto tempo. Soltanto Gea potrebbe descriverla. Tra l’altro, non si può neppure essere certi che fosse un idolo, perché qui non hanno mai venerato altri che Gea. Era una sorta di monumento, penso. Comunque, da migliaia di anni non se ne interessava più nessuno.

"Fino a cinquant’anni fa, beninteso. Fu allora che cominciarono ad arrivare i pellegrini, e Gea creò queste creature come caricature di quelle originali. Diede loro un’unica missione nella vita: quella di proteggere l’occhio a tutti i costi. E lo protessero bene. Nessuno riuscì a rubare l’occhio fino a quindici anni fa. Conoscevo almeno cinque persone che sono morte qui, dove siamo noi, e certo non furono le uniche.

"Ma una volta sparito l’occhio, ai guardiani non rimase più niente da fare. Gea non li aveva programmati perché si uccidessero, e quindi continuano così: mangiucchiano qualcosa, e diventano sempre più vecchi. Insomma, aspettano di morire."

— Dunque, tutto per mettere alla prova la gente — commentò Robin. — Quelle creature non esistevano neppure, prima che sfidasse la gente a… mettersi in viaggio per fare gli eroi… — Non riuscì a proseguire. Si sentì prendere nuovamente dall’ira.

— Esattamente. Quello che non vi ha detto, però, è che Gea è piena di posti come questo. Sono certa che vi ha raccontato la solita storiella dei cento e uno draghi, e delle gemme grosse come palloni. In realtà, questo posto è stato completamente battuto da generazioni di pellegrini, per tutti gli scorsi cinquant’anni, tutti alla ricerca di qualche eroica stupidaggine da compiere. Molti sono morti senza portare a termine l’impresa, ma se continueranno ad arrivarne degli altri, prima o poi non resterà nessuna impresa da compiere. I draghi sono quelli che se la sono vista più brutta. Ne restano pochi, mentre i pellegrini sono ancora tanti. Gea è in grado di tirare fuori in quattro e quattr’otto un nuovo drago quando ce n’è bisogno, ma ormai è alquanto in arretrato. Sta diventando vecchia, e non riuscirà più a recuperare. Ogni cosa si guasta, e passa del tempo prima che venga riparata. Non credo che restino più di una decina di draghi, e più di una ventina di monumenti da saccheggiare.

— C’è la crisi delle imprese eroiche — commentò Valiha, e non capì perché Robin scoppiasse a ridere.


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: