Nonostante tutto, non riuscii a trattenere un sorriso.
— Ed era scontenta — aggiunse Svetlana. — Sorrideva, ma forzatamente. Come se volesse restare ancora un po', mentre lui la portava via.
Si interruppe di nuovo per riflettere.
— L'aura della donna! — gridò il Capo. — Te la ricordi! Trasmettimi la composizione!
Aveva alzato la voce e cambiato tono. Naturalmente nessuno nel ristorante l'aveva sentito. Ma sul volto dei presenti passò una breve smorfia convulsa, e un cameriere che portava un vassoio inciampò e fece cadere una bottiglia di vino e due coppe di cristallo.
Svetlana scosse la lesta: il Capo l'aveva fatta andare in trance senza sforzo, come se fosse stata un normale essere umano. Vidi le sue pupille dilatarsi e una lieve striscia arcobaleno che si stendeva tra il suo volto e quello del Capo.
— Grazie, Sveta — disse Boris Ignat'evič.
— Ci sono riuscita? — chiese Sveta stupita.
— Sì. Ti puoi considerare mago di settimo grado. Comunicherò che hai superato l'esame individualmente. Anton!
Adesso toccava a me guardare il Capo negli occhi.
Una scossa.
Flussi di un'energia sconosciuta agli uomini.
E una forma.
No, non vedevo il volto dell'amica del Selvaggio. Vedevo la sua aura, che è molto di più. Strati verdi e azzurri mescolati, come gelato in una coppa, una piccola macchia marrone, una fascia bianca. Un'aura abbastanza complessa, ma facile da ricordare e tutto sommato simpatica. Cominciai a sentirmi a disagio.
E inoltre lo amava.
Lo amava e si sentiva offesa da qualcosa. Pensava che lui avesse smesso di amarla, ma sopportava ed era disposta a sopportare a lungo.
Sulle tracce di questa donna avrei trovato il Selvaggio. E lo avrei consegnato al Tribunale, a morte sicura.
— N-no — dissi.
Il Capo mi guardò poco convinto.
— Lei non ha nessuna colpa! E lo ama, si vede chiaramente!
Una musica malinconica ci avvolgeva tutti, e nessuno dei presenti sembrò udire il mio grido. Potevi metterti a strisciare per terra, e magari intrufolarti sotto il loro tavolo… quelli al massimo avrebbero spostato le gambe e poi avrebbero continuato a degustare le specialità della cucina indiana.
Svetlana ci guardava. Si era ricordata l'aura, ma non era in grado di decifrarla: per quello ci voleva il sesto grado.
— Allora morirai tu — disse il Capo.
— Io so perché.
— E non pensi a coloro che ti amano, Anton?
— Io non ho questo diritto.
Boris Ignat'evič sorrise a denti stretti. — Che eroe! Ah, che eroi siamo tutti! Abbiamo mani pure, cuori d'oro zecchino, piedi che non hanno mai calpestato la merda. E la donna che hanno accompagnato fuori da poco, te la ricordi? I bambini in lacrime, te li ricordi? Loro non sono agenti delle Tenebre. Sono persone normali, quelle che noi abbiamo promesso di difendere. Quanto valuteremo ognuna delle nostre operazioni? Perché i nostri analisti, anche se li maledico cento volte al giorno, hanno già i capelli bianchi a cinquant'anni?
E come poco prima io avevo redarguito Svetlana, con la stessa sicura autorevolezza adesso il Capo mi schiaffeggiò sulle guance.
— Tu servi alla Guardia, Anton! Sveta serve alla Guardia! Mentre uno psicopatico, ammettiamo anche che sia buono, non ci serve! Afferrare un pugnale e far fuori qualche agente delle Tenebre sul portone di casa o in una toilette non è difficile. Senza pensare alle conseguenze, senza valutare la colpa. Dov'è il nostro fronte, Anton?
— Tra gli uomini. — Abbassai gli occhi.
— Chi difendiamo?
— Gli uomini.
— Non esiste un Male astratto, è questo che devi capire! Le radici sono qui, attorno a noi, in questa mandria che mastica e brinda un'ora dopo un assassinio! Ecco per che cosa devi lottare. Per gli uomini. Le Tenebre sono come l'idra, e più teste tagli, più ne ricresceranno! Si può sterminare solo con la fame, ti ricordi? Uccidi cento agenti delle Tenebre, e al loro posto ne sorgeranno mille. Ecco perché il Selvaggio è colpevole! Ecco perché tu. proprio tu, Anton, lo troverai. E lo obbligherai a presentarsi in tribunale. Spontaneamente o con la forza.
Il Capo si zittì all'improvviso. Si alzò bruscamente. — Andiamocene, bambine.
Ormai non mi colpiva più quell'appellativo. Balzai in piedi afferrando la borsa… un movimento inconscio, involontario.
Il Capo non aveva intenzione di perdere tempo. — Veloci!
Di colpo mi resi conto che avrei avuto bisogno di fare una sosta nel luogo in cui il mago delle Tenebre aveva incontrato la morte. Ma non mi arrischiai nemmeno ad accennare alla faccenda. Ci dirigemmo verso l'uscita a una tale velocità che gli uomini della sorveglianza sicuramente ci avrebbero fermato, se avessero potuto vederci.
— Troppo tardi — disse piano il Capo proprio sulla porta. — Abbiamo chiacchierato troppo.
Nel ristorante stavano entrando, o meglio, si stavano insinuando tre Altri. Due ragazzi robusti e una ragazza.
La ragazza la conoscevo. Alisa Donnikova. Una streghetta della Guardia del Giorno. Quando vide il Capo spalancò gli occhi.
Dietro di lei c'erano due sagome invisibili e inafferrabili che avanzavano in mezzo al Crepuscolo.
— Vi chiedo di fermarvi — disse Alisa con voce strozzata, come se le si fosse improvvisamente seccata la gola.
— Via. — il Capo mosse appena una mano e gli agenti delle Tenebre finirono addossati alle pareti che ci circondavano. Alisa si inclinò, tentando di puntarsi contro il muro, ma le forze in gioco erano evidentemente impari.
— Zavulon, io ti chiamo! — strillò.
O-oh. La streghetta doveva essere una delle amanti del capo della Guardia dei Giorno, per avere il diritto di chiamata!
Gli altri due agenti delle Tenebre uscirono dalla penombra. A occhio li individuai come maghi combattenti di terzo o quarto grado. Naturalmente per Boris Ignat'evič non costituivano alcun pericolo, e anch'io sarei stato in grado di aiutarlo, ma potevano farci perdere tempo.
Anche il Capo se ne rese conto. — Che cosa volete? — chiese in tono imperioso. — È l'ora dei Guardiani della Notte.
— È stato compiuto un delitto. — Gli occhi di Alisa mandavano fiamme. — Qui, e da poco. È stato ucciso un nostro fratello, ucciso da qualcuno di… — Il suo sguardo trapanava ora il Capo, ora me.
— Di…? — chiese il Capo speranzoso. La strega non cadde nella provocazione. Se si fosse arrischiata a lanciare contro Boris Ignat'evič un'accusa del genere — dato il suo status e l'ora non legittima — il Capo l'avrebbe senz'altro spalmata sul muro.
E senza nemmeno un secondo di esitazione.
— Da qualcuno della Luce!
— I Guardiani della Notte non hanno notizia di un criminale.
— Chiediamo ufficialmente assistenza.
Ecco. Adesso non avevamo più via di scampo. Rifiutare assistenza all'altra Guardia era quasi una dichiarazione di guerra.
— Zavulon, io ti chiamo! — gridò di nuovo la strega. Sentii nascere dentro di me una timida speranza che il capo delle Tenebre non la sentisse o fosse impegnato in qualche faccenda più importante.
— Siamo pronti all'assistenza — disse il Capo. La sua voce era di ghiaccio.
Detti una rapida occhiata alla sala, al di sopra delle robuste spalle dei maghi. Gli agenti delle Tenebre ci avevano già circondato, evidentemente con l'intenzione di tenerci sulla porta. Nel ristorante stava accadendo qualcosa di straordinario.
La gente mangiava.
Il rumore di mascelle era tale che sembrava che ai tavoli sedessero dei maiali. Sguardi ottusi, vitrei. In mano avevano le posate, ma afferravano il cibo con le dita, si soffocavano, grugnivano, sputacchiavano. Un uomo anziano, dall'aspetto dignitoso, che cenava tranquillo circondato da tre guardie del corpo e da una fanciulla, a un tratto cominciò a bere vino direttamente dalla bottiglia. Un simpatico giovanotto, di certo appartenente alla brillante schiera degli yuppy, e la sua attraente compagna si strappavano il piatto di mano, macchiandosi di salsa arancione. I camerieri correvano da un tavolo all'altro e lanciavano ai mangiatori piatti, tazze, fornellini, vasetti…