— Alisa! — gridò il ragazzo senza interrompere il suo inutile attacco. Le sue dita si muovevano, cincischiavano l'aria, ne attingevano grumi di luce scarlatta e li gettavano contro l'omino. — Alisa!

La ragazza chinò la testa, continuando a fissare l'asiatico in fuga. Bisbigliò piano qualcosa e fece scorrere la mano sul vestito. Dal nulla comparve sul palmo un prisma sottile e trasparente.

L'omino accelerò l'andatura, sbandò a sinistra e a destra, abbassò la testa in modo ridicolo. Il mellifluo continuava a rotolare davanti a lui, ma ormai non si sforzava più di urlare. Aveva il volto graffiato a sangue, gli arti spezzati e privi di controllo, come se non fosse semplicemente rotolato per tre metri su un pavimento liscio, ma come se un folle uragano o un cavallo spronato l'avessero trascinato per tre chilometri su una steppa sassosa.

La ragazza guardò l'omino attraverso il prisma.

Inizialmente l'asiatico rallentò il passo. Poi emise un gemito e aprì le mani. Il melone si spaccò con uno scricchiolio sul pavimento di marmo. Anche la cartella cadde per terra.

— Oh — disse, quando la ragazza lo chiamò devona. — Oh oh oh.

L'omino si accasciò e cominciò a rattrappirsi. Le guance si infossarono, gli zigomi si affilarono, le mani si assottigliarono come quelle dei vecchi e si ricoprirono di vene e venuzze. I capelli neri non imbiancarono, ma si diradarono e un velo di polvere grigia li ricoprì. L'aria intorno a lui vibrò… invisibili rivoli ardenti cominciarono a scorrere verso Alisa.

— Ciò che non mi era stato dato, d'ora in avanti sarà mio — sibilò la ragazza. — Tutto ciò che è tuo è mio.

Il suo viso si stava arrossando tanto rapidamente quanto l'omino rinsecchiva. Le labbra schioccavano, mormoravano sordamente parole dal suono bizzarro. Il punk fece una smorfia, abbassò la mano: l'ultimo raggio scarlatto colpì il pavimento e fece annerire il marmo.

— Davvero facile — disse. — Davvero.

— Il Capo era molto scontento — disse la ragazza, nascondendo il prisma da qualche parte tra le pieghe del vestito. Sorrise. Il suo viso emanava quella forza e quell'energia che a volte pervadono le donne dopo il sesso. — Facile, ma il nostro Kolen'ka non ha avuto fortuna.

Il punk guardò il corpo immobile del capellone e annuì. I suoi occhi torbidi non esprimevano particolare compassione ma nemmeno malevolenza.

— Proprio così — concordò. Con passo sicuro si avvicinò al cadavere disseccato. Gli passò sopra il palmo della mano: il corpo si dissolse in cenere. Con la mossa successiva il ragazzo ridusse in una poltiglia appiccicosa il melone spaccato.

— La cartella — disse la ragazza. — Controlla la cartella.

Un movimento del palmo: la similpelle logora scricchiolò e la cartella si aprì come una conchiglia perlifera sotto il coltello di un pescatore esperto. Solo che, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, non vi era traccia della perla tanto attesa. Due cambi di biancheria pulita, una camicia bianca, un paio di scarpette di gomma in un sacchetto di plastica, un bicchiere di carta, un astuccio con gli occhiali.

Il ragazzo compì ancora alcuni gesti con la mano: il bicchiere si ruppe, l'abito si scucì, l'astuccio si aprì. Bestemmiò.

— È vuota, Alisa! Assolutamente vuota.

Sul viso della strega lentamente apparve stupore.

— Eppure è il devona, Stasik. Il corriere non poteva affidare il carico a nessuno!

— A quanto pare l'ha fatto — disse il ragazzo, rimestando con il piede la cenere dell'asiatico. Eppure ti avevo avvertita. Dagli agenti della Luce ci si può aspettare di tutto. Te ne sei assunta la responsabilità. Io sarò forse un mago poco potente. Ma ho cinquant'anni d'esperienza in più, rispetto a te.

Alisa annuì. Lo smarrimento era già scomparso dai suoi occhi. Di nuovo la mano scorse lungo il vestito, alla ricerca del prisma.

— Sì — convenne lei mite. — Hai ragione, Stasik. Ma tra cinquant'anni saremo pari.

Il punk scoppiò in una risata, si accovacciò accanto al cadavere del capellone e cominciò a frugare rapidamente nelle sue tasche.

— Ne sei convinta?

— Sì. Ti sei fatto valere, Stasik, ma inutilmente. Dopotutto l'avevo detto, io. di controllare anche gli altri passeggeri.

Il ragazzo si voltò troppo tardi, quando la vita, attraverso decine di invisibili fili roventi, aveva ormai cominciato ad abbandonare il suo corpo.

Capitolo 1

La Oldsmobile era antiquata, il che peraltro mi piaceva. Solo che, con il caldo pazzesco che per tutto il giorno aveva arroventato la strada, i finestrini aperti non servivano. Ci voleva un condizionatore.

Il'ja era con tutta probabilità della stessa opinione. Guidava tenendo il volante con una mano, si guardava intorno e attaccava discorso di continuo. Sapevo bene che un mago del suo livello vede ogni eventualità con una decina di minuti d'anticipo e che non si sarebbe verificato alcun incidente, e tuttavia mi sentivo a disagio.

— Avevo pensato di installare un condizionatore — disse a Julja in tono colpevole. La ragazzina soffriva il caldo più di tutti, il viso le si ricopriva di brutte macchie rosse, gli occhi si offuscavano. Avevamo paura che vomitasse. — Solo che bisognerebbe manomettere tutta la macchina, e la macchina non è predisposta! Né ai condizionatori, né al telefono, né ai computer di bordo.

— Uhu — disse Julja. Sorrise debolmente. Il giorno prima ci eravamo sfiniti: nessuno era andato a letto, avevamo lavorato fino alle cinque del mattino e poi avevamo dormito direttamente in sede. Far sgobbare una tredicenne quanto gli adulti naturalmente era una porcata. Ma l'aveva voluto lei stessa, nessuno l'aveva forzata.

Svetlana, che sedeva davanti, guardò preoccupata Julja e poi Semën, con aria di estrema disapprovazione. Sotto quello sguardo, l'imperturbabile mago per poco non si strozzò con la sua Java. Fece un respiro: il fumo di sigaretta che mulinava per tutto l'abitacolo fu risucchiato nei suoi polmoni. Con uno scatto gettò via il mozzicone. Anche le Java costituivano una concessione, dato che ormai da un po' Semën preferiva le Polet e altre terribili varietà di tabacco.

— Chiudete i finestrini — disse Semën.

Un minuto dopo l'interno della macchina cominciò a raffreddarsi. Si diffuse un vago odore di mare, leggermente salato. Compresi persino che si trattava di un mare notturno, e nemmeno troppo lontano: l'odore abituale della costa di Crimea. Iodio, alghe, una sottile nota di assenzio. Il Mar Nero. Koktebel'.

— Koktebel'? — chiesi.

— Jalta — rispose brevemente Semën. — Settembre, il dieci del mese, anno 1974, notte, verso le tre. Dopo una leggera tempesta.

Il'ja fece schioccare la lingua invidioso: — Caspita! E un bouquet così non l'avevi ancora consumato?

Julja guardò Semën con aria colpevole. La preservazione del clima riusciva difficile a qualsiasi mago, e il bouquet percettivo usato in quel momento da Semën era tale da abbellire qualsiasi festicciola.

— Grazie, Semën Pavlovič. — In sua presenza chissà perché la ragazzina si mostrava timida, proprio come di fronte a un capo, e lo chiamava per nome e patronimico.

— È una sciocchezza — rispose tranquillo Semën. — La mia collezione comprende una pioggia nella taiga del 1913, un tifone del '40, una mattina primaverile a Jurmala del '56 e, mi sembra, una sera d'inverno a Gagry.

Il'ja si mise a ridere. — Una sera d'inverno a Gagry… alla malora! Invece la pioggia nella taiga…

— Non ho intenzione di scambiarla — l'avverti subito Semën. — Conosco la tua collezione, non possiedi niente che abbia lo stesso valore.

— Però in cambio di due, no, di tre…

— Posso regalarla — disse Semën.

— Ma va' là — rispose piccato Il'ja, strattonando il volante. — Come potrei ricambiare un regalo del genere?

— Allora ti inviterò quando la riattiverò.

— Grazie.

Di sicuro si era offeso. Secondo me, quei due erano pressoché identici per capacità, poteva darsi addirittura che Il'ja fosse un po' più potente. Ma in quel momento Semën possedeva un'aura degna di una raffigurazione magica. E in più era capace di non consumare la propria collezione per un nonnulla.


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