Finalmente Svetlana fece un passo verso di me. Mi prese delicatamente per un braccio. Poi guardò Geser e per un istante il suo viso fu sfigurato dall'ira.
— No, no — le dissi. — Svetlana, non devi. Ha ragione lui. Io oggi l'ho capito, ho capito per la prima volta qual è il confine da non superare nella nostra lotta. Non ti infuriare. E questo — sollevai la mano dalla ferita — è solo un graffio. Noi non siamo umani, siamo molto più resistenti.
— Grazie, Anton — disse il Capo. Poi guardò Egor: — Grazie anche a te, ragazzo. È molto spiacevole pensare che starai dall'altra parte della barricata. Ma ero sicuro che in ogni caso avresti difeso Anton.
Il ragazzino fece per muoversi verso il Capo, ma io lo trattenni per la spalla. Ci mancava soltanto che se ne venisse fuori con qualche frase inopportuna. Non conosceva certo tutta la complessità del nostro gioco! Non sapeva che tutte le azioni di Geser erano solo contromosse.
— Mi dispiace soltanto una cosa, Geser — feci. — Soltanto una cosa. Che Zavulon non sia qui. Non aver potuto vedere la sua faccia quando tutto il suo gioco è crollato.
Il Capo non mi rispose subito.
Probabilmente gli risultava difficile dirmi la verità. Anch'io, devo ammetterlo, non fui tanto lieto di sentirla.
— Ma qui Zavulon non c'entra affatto, Anton. Devi scusarci. Ma lui non c'entra proprio per niente. Questa operazione è stata completamente gestita dalla Guardia della Notte.
Terza Storia
Strettamente riservato
Prologo
Era un omino piccolo, dalla carnagione olivastra, con gli occhi a mandorla. La preda ambita da ogni poliziotto della capitale. Il sorriso colpevole, smarrito; lo sguardo ingenuo, sfuggente; nonostante la calura mortale indossava un abito scuro, di taglio antiquato ma quasi nuovo; a completare il tutto, una vecchia cravatta dell'era sovietica. In una mano una cartella rigonfia, logora, di quelle che nei vecchi film usavano gli agronomi e i presidenti dei colcos; nell'altra una sacca per la spesa con un lungo melone asiatico.
L'omino scese da un vagone di seconda classe, sorridendo. Al cuccettista, agli altri viaggiatori, al facchino che l'aveva aiutato, al ragazzo della bancarella che vendeva limonata e sigarette. Alzò gli occhi, guardò estasiato il tetto che ricopriva la stazione Kazanskij. Poi s'incamminò lentamente lungo il marciapiede, fermandosi di tanto in tanto per impugnare più comodamente la borsa con il melone. Poteva avere trent'anni come cinquanta: per gli occhi di un europeo era difficile stabilirlo.
Il ragazzo sbucato un minuto dopo da una carrozza di quello stesso treno — il Taskent-Mosca, forse uno dei più sudici e scassati del mondo — sembrava esattamente l'opposto. Aveva anche lui un aspetto orientale, forse più vicino a quello degli usbechi, ma vestiva alla moscovita: calzoncini corti e maglietta, occhiali da sole; alla cintola, una borsetta di pelle e un cellulare. Nessun bagaglio. Nessuna patina provinciale. Non si guardò intorno, non cercò l'agognata lettera M. Un rapido cenno al cuccettista, una leggera oscillazione del capo in risposta alle offerte dei tassisti. Un passo, un altro… si immerse nella folla, sgusciò tra i viaggiatori frettolosi, il viso gli si colorì lievemente di ostilità e distacco. Un istante dopo divenne parte organica e indistinguibile della folla. Si radicò nel suo corpo come una cellula, sana e gioiosa, che non invogliava la curiosità né dei poliziotti-fagociti, né delle cellule vicine.
L'omino con il melone e la cartella, invece, vi si intrufolò a fatica, borbottando innumerevoli volte le proprie scuse in un russo non molto corretto, incassando la testa nelle spalle, guardandosi intorno. Passò davanti a un sottopassaggio senza fermarsi, girò la testa, si diresse verso quello successivo, si arrestò accanto a un cartellone pubblicitario, in un punto in cui cera meno calca, e stringendo maldestramente al petto le proprie cose estrasse un foglietto sgualcito e si immerse a studiarlo Sul suo viso non si manifestò il minimo sospetto che lo stessero seguendo.
La situazione era ottimale, per i tre individui che se ne stavano addossati alle pareti della stazione: una bella ragazza, radiosa, dai capelli rossi, con un vestito di seta aderente al corpo: un ragazzo con l'aspetto di un punk e gli occhi sorprendentemente vecchi e malinconici; un uomo con i lunghi capelli lisciati e modi da finocchio.
— Non gli somiglia — disse in tono dubbioso il ragazzo con gli occhi da vecchio. — Eppure non gli somiglia. L'ho visto tanto tempo fa e per poco, ma…
— Intendi forse chiedere precisazioni a Geser? — lo canzonò la ragazza. — Io ci vedo. È lui.
— Te ne assumi la responsabilità? — Il ragazzo non mostrò né stupore né desiderio di discutere. Volle semplicemente precisare la cosa.
— Sì. — La ragazza non staccò lo sguardo dall'asiatico. — Andiamo. Lo prendiamo di sotto.
I primi passi che fecero furono lenti e sincronizzati. Poi si divisero: la ragazza tirò dritto, i due uomini scomparvero ai lati.
L'omino ripiegò il foglietto e si avviò incerto verso il sottopassaggio.
Un moscovita o un ospite frequente della capitale si sarebbe stupito dell'improvvisa assenza di gente. Bene o male, si trattava del percorso più comodo e breve dal metrò al marciapiede ferroviario. Ma l'omino non vi prestò attenzione. Non si rese conto che alle sue spalle i passanti si arrestavano, come urtando contro una barriera invisibile, e infilavano le altre scale. Né poteva in alcun modo vedere che la medesima cosa si stava verificando all'altro capo del sottopassaggio.
Gli si fece incontro un uomo. Sorrideva e aveva un aspetto mellifluo. Da dietro comparvero una ragazza simpatica e un ragazzo trasandato, con l'orecchino e i jeans strappati.
L'omino continuò a camminare.
— Fermati un po', caro — disse il mellifluo con tono pacifico. La voce corrispondeva perfettamente al suo aspetto, era sottile e affettata. — Non correre.
L'asiatico sorrise, ma non si fermò.
Il mellifluo fece un movimento con la mano, come se stesse tracciando una linea tra sé e l'omino. L'aria cominciò a vibrare e un vento gelido si abbatté nel sottopassaggio. Da qualche parte sulla banchina ferroviaria alcuni bambini si misero a piangere, un cane cacciò un ululato.
L'omino si arrestò, guardando davanti a sé con aria meditabonda. Strinse le labbra a mo' di trombetta, soffiò, fece un sorriso astuto all'individuo che gli stava di fronte. Si udì un leggero tintinnio, come se un vetro invisibile si fosse infranto. Il mellifluo fece una smorfia di dolore e arretrò di un passo.
— Bravo, devona — disse la ragazza, fermandosi alle spalle dell'asiatico. — Ma adesso forse ti conviene non avere tutta questa fretta.
— Devo sbrigarmi, ohi, sbrigarmi — biascicò l'omino. Guardò di sbieco dietro di sé: — Vuoi un melone, bellezza?
Sorridendo, la ragazza lo fissò. Disse: — Vieni con noi, signore… Ci siederemo, mangeremo il tuo melone, berremo una tazza di tè. È tanto che ti aspettiamo, non è bello scappare subito via.
Sul viso dell'omino si rifletté un intenso lavorio mentale. Annuì. — Andiamo, andiamo.
Il suo primo passo fece cadere il mellifluo. Come se davanti all'asiatico ora si muovesse uno scudo invisibile, un muro non materiale, ma fatto piuttosto di vento furioso: l'uomo venne trascinato per il pavimento, i lunghi capelli svolazzanti. Strizzò gli occhi e un urlo silenzioso gli esplose in gola.
Il ragazzo con l'aspetto del punk agitò la mano e uno sfarfallio di luci scarlatte si scagliò contro l'omino. Erano accecanti, ma non appena si staccavano dal palmo della mano, cominciavano a indebolirsi. Alla schiena dell'asiatico giungevano quando non erano più che un bagliore a stento visibile.
— Ahi ahi ahi — disse l'omino senza fermarsi. Contrasse le scapole, proprio come se sulla schiena gli si fosse posata una mosca fastidiosa.