Una ragazza davvero simpatica. Sono tutti buoni e simpatici i miei amici e compagni della Guardia. Sentivo le loro voci attraverso la musica dei Queen, ed era una sensazione piacevole. Con alcuni i miei rapporti erano più stretti, con altri meno. Ma lì non avevo né avrei avuto nemici. Eravamo andati avanti insieme e avremmo continuato a farlo, perdendoci l'un l'altro per una sola e unica causa.

Ma allora perché ero così scontento di ciò che stava accadendo? Solo io. Sia Ol'ga. sia Tigrotto approvavano il comportamento del Capo, e gli altri, a chiederglielo apertamente, avrebbero concordato.

Davvero avevo perso obiettività?

Certo.

Sorbii il cognac a lunghe sorsate. Lanciai uno sguardo attraverso il Crepuscolo e scorsi le pallide fiammelle di una vita estranea, insensata.

In sala erano sbucate tre zanzare, due mosche e, proprio nell'angolo, sul soffitto, un ragnetto.

Agitai le dita e modellai una minuscola pallina di fuoco, con un diametro di due millimetri. Mirai verso il ragno — per gli esercizi di riscaldamento è meglio scegliere un bersaglio immobile — e feci partire la fireball.

Non c'era nulla di immorale nel mio comportamento. Non siamo buddisti… in ogni caso non lo è la maggior parte degli Altri in Russia. Mangiamo la carne, schiacciamo le mosche e le zanzare, sterminiamo gli scarafaggi; se non si avesse voglia di acquisire ogni mese nuovi incantesimi d'intimidazione, gli insetti diverrebbero rapidamente immuni alla magia.

Niente di immorale. È semplicemente una cosa buffa: "fireball sulle zanzare". Il passatempo preferito dei bambini di tutte le età che frequentano i corsi presso la Guardia. Credo che anche gli agenti delle Tenebre si divertano nello stesso modo: però senza fare differenze tra una mosca e un passero, tra una zanzara e un cane.

In un attimo bruciai il ragno. Anche con le zanzare semiaddormentate non ebbi problemi.

Festeggiai ogni vittoria con un bicchiere di cognac, brindando in anticipo con la servizievole bottiglia. Poi cercai di colpire le mosche, ma forse cominciavo ad avere un po' troppo alcol nelle vene, o forse le mosche percepivano assai meglio ravvicinarsi delle sferette di fuoco. Per la prima dovetti usare quattro cariche. La seconda la abbattei alla sesta fireball, dopo aver infilato due minuscoli fulmini globulari infuocati nello scaffale vetrato sul muro.

— Che brutta cosa — dissi pentito mentre finivo il cognac. Mi alzai: la stanza oscillò. Mi avvicinai allo scaffale. Al suo interno, su un panno di velluto nero, erano fissate alcune spade. Tedesche, a prima vista, del XV o XVI secolo. L'illuminazione era disinserita, perciò non potei definirne meglio l'età. Nel vetro erano comparsi alcuni piccoli fori, ma ero riuscito a non toccare le spade.

Per un po' riflettei su come rimediare al danno, e non trovai niente di meglio che far tornare al suo posto il vetro vaporizzato e sparso per la stanza. Nel fare ciò, dovetti impiegare forze di gran lunga superiori a quelle che avrei usato se avessi dissolto e ricostruito tutto il vetro daccapo.

Poi mi infilai nel bar. Chissà perché il cognac non mi andava più. Perciò la bottiglietta di liquore messicano al caffè mi sembrò un buon compromesso tra la voglia di bere e la voglia di rinfrancarsi. Caffè e alcol in un'unica boccetta.

Tornai indietro e trovai Semën seduto sulla mia poltrona.

— Se ne sono andati tutti al lago — riferì.

— Adesso — dissi, avvicinandomi. — Adesso adesso.

— Posa la bottiglia — consigliò Semën.

— Perché? — ribattei. Tuttavia la posai.

Semën mi fissò negli occhi. Le barriere non funzionarono e io intuii l'insidia troppo tardi. Cercai di deviare lo sguardo, ma non ci riuscii.

— Canaglia — espirai, piegandomi con forza.

— In fondo al corridoio a destra! — mi gridò dietro Semën. Il suo sguardo continuava a trapanarmi la schiena e a serpeggiare subito dopo davanti a me come un filo invisibile.

Raggiunsi di corsa il bagno. Cinque minuti dopo arrivò anche il mio torturatore.

— Va meglio?

— Sì — risposi, respirando affannosamente. Mi sollevai e infilai la testa nel lavandino. In silenzio. Semën aprì il rubinetto. Mi diede qualche pacca sulla schiena. — Rilassati. Abbiamo cominciato con i rimedi popolari, ma…

Un'onda di calore mi attraversò. Mandai un gemito, tuttavia non cercai più di ribellarmi. L'intontimento era passato da un pezzo, adesso mi stavano abbandonando gli ultimi postumi residui.

— Che stai facendo? — chiesi soltanto.

— Do una mano al tuo fegato. Bevi un sorso d'acqua, starai meglio.

Effettivamente funzionò.

Di lì a cinque minuti uscii dal bagno sulle mie gambe, sudato fradicio, rosso in viso, ma assolutamente sobrio. E persino pronto a difendere le mie posizioni.

— Perché ti sei immischiato? Avevo voglia di ubriacarmi e l'ho fatto.

— La gioventù! — Semën scosse la testa con disapprovazione. — Aveva voglia di ubriacarsi! Chi mai si ubriaca con il cognac? E dopo il vino, oltretutto, e così in fretta, mezzo litro in mezz'ora. Una volta io e Saška Kuprin decidemmo di sbronzarci…

— Quel dannato Saška?

— Proprio lui, lo scrittore. Solo che all'epoca ancora non scriveva. Be', allora bevemmo, ma in modo civile, in mezzo al fumo e al casino, con balli sui tavoli, spari sul soffitto e dissolutezza.

— E lui cos'era, un Altro?

— Saška? No. ma era una brava persona. Facemmo fuori un quarto, mentre le ginnasiali si diedero allo champagne.

Mi lasciai cadere pesantemente sul divano. Inghiottii la saliva, guardai la bottiglia vuota e ricominciai ad avere la nausea.

— E vi ubriacaste con un quartino?

— Un quarto di secchio… come avremmo potuto non sbronzarci? — si meravigliò Semën. — Sbronzarsi va bene, Anton. Se è davvero necessario. Ma bisogna farlo con la vodka. Il cognac e il vino sono per il cuore.

— E la vodka?

— Per l'anima. Se fa davvero molto male.

Mi guardò con aria di lieve rimprovero. Era un piccolo, ridicolo mago dal viso furbesco, con tutti quei ridicoli piccoli ricordi di grandi uomini e grandi battaglie.

— Ho sbagliato — riconobbi. — Grazie dell'aiuto.

— Sciocchezze, vecchio mio. Una volta ho dovuto far passare la sbornia al tuo omonimo per tre volte in una sera. Be', quella volta si era in azione, bisognava bere, non ubriacarsi.

— Omonimo? Čechov? — chiesi stupito.

— No, che dici? Era un altro Anton, uno dei nostri. È morto in Estremo Oriente, quando i samurai… — Semën lasciò perdere e tacque. Poi, quasi con tenerezza, aggiunse: — Non avere fretta. Stasera faremo le cose come si deve. Ma adesso bisogna raggiungere i ragazzi. Andiamo, Anton.

Uscii dalla casa seguendo docilmente Semën. E vidi Sveta. Se ne stava su una sdraio, già con indosso il costume da bagno e una gonna colorata, o un pezzo di stoffa avvolto intorno ai fianchi.

— Tutto bene? — mi domandò, con leggero stupore.

— Assolutamente.

Mi guardò con attenzione. Ma evidentemente, a parte il colorito grigio-marrone del viso e i capelli bagnati, nulla tradiva l'ubriachezza.

— Devi controllare il pancreas.

— Tutto a posto — si affrettò a dire Semën. — Controlla pure, anch'io mi sono occupato della cura. Il caldo, il vino acido, gli spiedini grassi: ecco le cause. Adesso farà il bagno, e stasera quando farà fresco ci berremo una bottiglia. La cura è tutta qui.

Sveta si alzò, si avvicinò e mi fissò negli occhi.

— Ce ne stiamo qui seduti per un po'? Preparo un tè forte.

Sì, certo. Starcene semplicemente seduti. Noi due. Bere il tè. Parlare o tacere. Non era importante. Guardarla di tanto in tanto oppure non guardarla addirittura. Ascoltarne il respiro, oppure tapparsi le orecchie. Solo sapere che eravamo vicini. Noi due, non l'affiatato collettivo della Guardia della Notte. E insieme, ma perché se ne aveva voglia, non perché Geser lo aveva messo in programma.

Davvero avevo disimparato a sorridere?


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