Non mi aspettavo alcun risultato particolare. Ciò che mi interessava sapere apparteneva a un livello di segretezza troppo elevato.
Nel database la parola "gesso" ricorreva tre volte.
Nel primo caso si faceva riferimento a una cava di gesso in cui, nel XV secolo, si tenne un duello tra due maghi di livello superiore, un agente della Luce e uno delle Tenebre. Morirono entrambi, per esaurimento delle forze, poiché non ce la fecero a uscire dal Crepuscolo alla fine del combattimento. Nei cinquecento anni successivi, in quella stessa zona morirono quasi tremila persone.
La seconda voce riguardava l'uso del gesso nella scrittura di segni magici e cerchi di difesa. In questo caso le informazioni erano molto più numerose. Lessi tutto in gran fretta. Niente di significativo. L'impiego del gesso non presentava alcun vantaggio particolare rispetto al carbone, alla matita, al sangue o ai colori a olio. Salvo forse per il fatto che si cancellava assai più facilmente.
Ma il terzo riferimento faceva capo alla sezione "Miti e dati non confermati". Ovviamente vi si trovava una gran quantità di scemenze, come l'uso dell'argento e dell'aglio contro i vampiri o le descrizioni di cerimonie e rituali inesistenti.
Ma mi era già capitato di verificare che tra i "miti" si potevano anche reperire notizie vere, sebbene dimenticate.
Il gesso veniva menzionato nell'articolo "Libri del Destino".
Ero arrivato a metà articolo, quando mi resi conto di aver fatto centro. L'informazione era liberamente consultabile, bene in vista, accessibile a qualsiasi mago alle prime armi, e reperibile forse anche nei repertori aperti agli uomini.
I Libri del Destino. Il gesso.
Tutto tornava.
Chiusi il file e spensi il computer. Restai seduto a morsicarmi le labbra. Guardai l'orologio.
Era ora che mi recassi sul luogo del nostro strano appuntamento.
Feci la doccia e mi cambiai. Presi con me il medaglione di Zavulon, il distintivo della Guardia della Notte e un dischetto da combattimento regalatomi da H'ja: un antico tondino di bronzo di dimensioni di poco superiori a quelle di una moneta. Non l'avevo mai usato.
Tirai fuori la pistola dal nascondiglio. Controllai il caricatore. Pallottole esplosive d'argento. Buone contro i mutantropi, di dubbia utilità contro i vampiri, assolutamente efficaci contro i maghi delle Tenebre.
Proprio come se mi stessi preparando a combattere, e non a incontrare il mio superiore.
Il cellulare si mise a squillare in tasca quando fui davanti alla porta.
— Anton?
— Sveta?
— Ol'ga ti vuole parlare, le passo il telefono.
— Va bene — dissi girando la chiave.
— Anton, ti amo tanto. Non fare stupidaggini, ti prego.
Proprio non riuscii a trovare una risposta. Ol'ga prese il telefonino.
— Anton. Voglio che tu sappia che tutto è già deciso. E tutto procede con grande rapidità.
— Stanotte — feci eco.
— Come fai a saperlo?
— Lo sento. Semplicemente lo sento. Per questo i Guardiani sono stati fatti allontanare dalla città, non è vero? E per questo Svetlana è stata portata a un opportuno stato emotivo.
— Cosa sai?
— Il Libro del Destino. Il gesso. Ormai ho capito tutto.
— Inutilmente — rispose brusca Ol'ga. — Anton, devi…
— Non devo niente a nessuno. Solo alla Luce che è in me.
Chiusi la comunicazione e spensi il cellulare. Basta. Geser poteva contattarmi anche senza mezzi tecnologici. Ol'ga avrebbe continuato con le sue esortazioni. Svetlana non avrebbe comunque capito cosa stavo facendo e perché.
"Se hai deciso di andare fino in fondo, allora vacci da solo. E non chiamare nessuno al tuo fianco."
— Siediti, Anton — disse Geser.
Il locale si rivelò davvero minuscolo. Sei o sette tavolini separati da tramezzi. Il banco del bar. Fumo. Un televisore acceso senza audio trasmetteva lanci col paracadute. Alle pareti, fotografie di soggetto analogo: corpi distesi in volo e disposti in brillanti combinazioni. Pochi avventori, forse per via dell'ora: troppo tarda per il pranzo, ancora lontana dal picco serale. Gettai uno sguardo ai tavolini. Boris Ignat'evič sedeva in un angolo.
Non era solo. Se ne stava davanti a un piatto di frutta, staccando pigramente i chicchi da un grappolo d'uva. Un po' di lato, a braccia conserte, era seduto un ragazzo alto e olivastro. I nostri sguardi si incrociarono e percepii una leggera ma sensibile pressione.
Era un Altro.
Per una manciata di secondi ci fissammo, aumentando gradualmente la spinta. Era dotato di considerevoli poteri, ma di scarsa esperienza. A un certo punto allentai la resistenza, schivai la sua sonda e, prima che il ragazzo riuscisse ad alzare le difese, lo scandagliai.
Un Altro. Un agente della Luce. Quarto livello.
Il ragazzo si piegò come per il dolore. Guardò Geser con gli occhi di un cane bastonato.
Geser ci presentò: — Anton Gorodeckij, Altro, Guardiano della Notte a Mosca. Ališer Ganiev, Altro, da poco Guardiano della Notte a Mosca.
Era il corriere.
Gli porsi la mano e abbassai la difesa.
— Sei un agente della Luce, secondo livello — disse Ališer guardandomi negli occhi. Fece un inchino.
Scossi la testa e lo corressi: — Terzo.
Di nuovo il ragazzo guardò Geser. Stavolta con aria non colpevole, ma stupita.
— Secondo — confermò il Capo. — Sei al culmine della tua forma, Anton. Sono molto contento per te. Siediti, parliamo. Ališer, fa' attenzione.
Mi sedetti di fronte al Capo.
— Sai perché ho fissato l'appuntamento proprio qui? — domandò Geser. — Prendi un po' d'uva. È saporita.
— Come faccio a saperlo? Magari perché qui hanno l'uva più saporita di tutta Mosca.
Geser si mise a ridere.
— Bravo! Be', non è questo. La frutta l'abbiamo presa al mercato.
— Allora perché il posto è piacevole.
Il Capo alzò le spalle. — Non è niente di particolare. Una saletta. Oltre quella porta ci trovi un tavolo da biliardo e un altro paio di tavolini.
— Allora lei si lancia di nascosto col paracadute, Capo.
— Sono vent'anni che non lo faccio — ribatté Geser come se niente fosse. — Caro Anton, sono venuto qui a mangiare uno spezzatino con patate e un po' di uva soltanto per mostrarti un microcosmo. Una società piccola piccola. Rilassati, sta' comodo. Ališer, va' a prendere un boccale di birra per Anton! Guardati intorno, soldato. Guarda le facce. Ascolta le chiacchiere. Inspira l'aria.
Girai la testa e mi spostai sull'orlo della panca per riuscire a dare almeno un'occhiata agli astanti. Ališer si trovava già al banco, in attesa della mia birra. I clienti del Parabar avevano facce strane. C'era qualcosa di impercettibile che li faceva somigliare tutti. Sguardi e movimenti caratteristici. Niente di che. solo un marchio invisibile.
— Un collettivo — disse il Capo — è un microcosmo. Avrei potuto farti questo discorso allo Chance, il gay-club, o al ristorante dell'Unione degli Scrittori, o ancora in una bettola vicino a qualche fabbrica. Non è importante. La cosa essenziale è che vi si formi proprio un collettivo ristretto e chiuso, in un modo o nell'altro isolato dalla società. Non un McDonald's, non un ristorante chic, ma un circolo, palese o nascosto. Sai perché? Noi siamo così. È un modello della nostra Guardia.
Io guardavo in silenzio: un ragazzo con le stampelle si accostò al tavolo vicino, ignorò l'esortazione a sedersi e, appoggiandosi al tramezzo, cominciò a raccontare qualcosa. La musica copriva le parole, ma potevo assimilarne il senso generale attraverso il Crepuscolo. Il paracadute non si era aperto completamente. Era atterrato con quello di riserva. Aveva riportato un bel po' di fratture. Per sei mesi non avrebbe più potuto lanciarsi!
— Qui la compagnia è particolarmente significativa — proseguì senza fretta il Capo. — Rischio. Sensazioni forti. Indecifrabilità da parte degli altri. Slang. Problemi assolutamente incomprensibili per la gente comune. E, già che ci siamo, traumi ricorrenti e morte. Ti piace qui?