— Non è qui.

— Dunque è in un altro luogo.

— Laggiù dove è, tu non potresti raggiungerla. Mai, a meno che tu non abbia il nostro aiuto.

— Allora aiutatemi. Ve lo chiedo come vostra ospite.

— Si dice: Gli Angyar prendono; i Fiia danno; gli Gdemiar danno e prendono. Se faremo questo per te, che cosa ci darai?

— La mia gratitudine, Signore della Notte. Tacque, sorridendo, alta e fulgida in mezzo a loro.

Tutti la fissavano con un rancore, un'ostinazione che erano assai prossimi alla meraviglia, a un oscuro desiderio.

— Ascolta, Angya; ciò che ci chiedi è un favore grandissimo. Tu non puoi sapere quanto sia grande. Appartieni a una razza che non è disposta ad ascoltare, che pensa soltanto a cavalcare sul vento, a coltivare la terra, a combattere a filo di spada, a fare baldoria cantando in compagnia. Ma chi fabbrica le vostre spade di acciaio lucente? Noi, gli Gdemiar! I vostri signori vengono da noi, qui e nei Campi d'Argilla, acquistano le spade e se ne vanno senza guardare, senza capire. Ma tu, ora che sei qui, guarderai, e vedrai una parte delle nostre infinite meraviglie: le luci che rimangono sempre accese, il carro che si traina da solo, le macchine che fabbricano i nostri vestiti, cuociono il nostro cibo, addolciscono la nostra aria e ci servono in ogni nostra necessità.

«Sappi che ciascuna di queste cose è al di là della vostra comprensione. E sappi ancora una cosa: noi, gli Gdemiar, siamo amici di coloro che voi chiamate Signori delle Stelle! Li abbiamo accompagnati a Hallan, a Reohan, a Hul-Orren, in tutti i vostri castelli, per aiutarli a parlare con voi. I signori a cui voi, orgogliosi Angyar, pagate un tributo, sono nostri amici. Ci fanno dei favori, e noi facciamo dei favori a loro! Ora, che significato può avere, per noi, la tua gratitudine?

— Tocca a te rispondere a questa domanda — disse Semley, — non a me. Io ho fatto la mia domanda. Rispondi ad essa, Signore.

Per qualche tempo, i sette confabularono tra loro, a voce e in silenzio. La guardavano e poi distoglievano lo sguardo, mormoravano qualche parola e poi tacevano. Pian piano, intorno a loro, cominciò a raccogliersi una folla, lentamente e silenziosamente richiamata laggiù, un individuo alla volta, e infine Semley si trovò circondata da centinaia di teste nere e scarmigliate, e tutto il pavimento della grande caverna echeggiante si riempì di gente, tranne un breve spazio intorno a lei. Il grifone fremeva di timore e di irritazione repressa, i suoi occhi erano pallidi e spalancati, come quelli di un animale costretto a volare di notte. Semley gli accarezzò il caldo pelo dietro le orecchie, mormorando: — Calmo, calmo, coraggioso, bello, padrone dei venti…

— Angya, ti porteremo nel luogo dove si trova il tesoro. — L'Uomo d'Argilla dalla faccia bianca e dalla coroncina di ferro aveva ripreso a parlare. — Di più non possiamo fare. Devi venire con noi a richiedere la collana, laggiù dove si trova, a coloro che la conservano. La bestia dell'aria non può venire con te. Devi venire da sola.

— Quanto è lungo il viaggio, Signore?

L'Uomo d'Argilla sorrise; il sorriso si allargò ulteriormente. — Un viaggio molto lungo, Signora. Eppure, durerà soltanto una notte.

— Vi ringrazio della vostra cortesia. Avrete cura del mio destriero per questa notte? Non deve succedergli niente di male.

— Dormirà fino al tuo ritorno. E quando rivedrai la tua bestia avrai cavalcato un destriero del vento ben più possente! Non ci chiedi dove ti condurremo?

— Possiamo iniziare presto il viaggio? Non vorrei restare assente da casa troppo tempo.

— Sì. Presto. — Le labbra grige sorrisero nuovamente, mentre l'Uomo d'Argilla sollevava la testa per guardarla.

Quel che accadde nelle ore successive, Semley non fu mai in grado di narrarlo: ricordava soltanto la fretta, il movimento caotico, il rumore, la stranezza delle esperienze. Lei che teneva ferma la testa del grifone, mentre uno degli Uomini d'Argilla gli cacciava nel fianco striato d'oro un lunghissimo ago. Per poco, a quella vista, Semley non si lasciò scappare un grido, ma la bestia si limitò a fremere un momento, e poi, facendo le fusa, cadde nel sonno. Venne portata via da un gruppo di Uomini d'Argilla che dovettero chiamare a raccolta tutto il loro coraggio per toccare il suo caldo pelame.

Più tardi dovette farsi piantare anche lei un ago nel braccio: forse, pensò, intendevano soltanto mettere alla prova il suo coraggio, perché l'ago non la fece addormentare (anche se, a questo proposito, qualche dubbio le rimase sempre). Talvolta dovette viaggiare sui carri, superando centinaia e centinaia di porte di ferro e di caverne; una volta il carro attraversò una caverna che si stendeva per una distanza incommensurabile, nel buio, da entrambi i lati, e tutta quella tenebra era piena di immensi branchi di helidor. Udì i loro richiami gutturali e scorse la forma dei branchi quando le luci di testa del carro li illuminarono; infine ne poté vedere alcuni più da vicino, e si accorse che erano privi di ali, e ciechi. Di fronte a quella vista, chiuse gli occhi. Ma c'erano sempre nuove gallerie da percorrere, e nuove caverne, nuove figure grige e tozze, facce feroci e voci echeggianti; infine, all'improvviso, la condussero all'aria aperta. Si era nel pieno della notte; Semley alzò gli occhi, gioiosamente, verso le stelle e l'unica luna che ancora brillava, la piccola Heliki che rischiarava l'occidente. Ma gli Uomini d'Argilla ripresero subito a occuparsi di lei, facendole salire alcuni scalini per entrare in un nuovo tipo di carro (o di grotta? Semley non avrebbe saputo dirlo). Era piccolo, pieno di luci che si accendevano e si spegnevano, simili alle bocce luminose che aveva visto al suo ingresso nel regno sotterraneo, ma assai più piccole; l'intero ambiente era molto stretto ed era tutto lucido, assai diverso sia dalle grandi caverne umide, sia dalla notte stellata. Un altro ago la punse, e le fu detto che l'avrebbero legata su una specie di sedia piatta: mani, piedi e testa.

— No — protestò.

Ma quando vide che i quattro Uomini d'Argilla che dovevano farle da guida si facevano legare prima di lei, si arrese. Gli altri li lasciarono soli. Ci fu un grande ruggito, e poi un lungo silenzio; Semley si sentì schiacciare da un grande peso invisibile. Poi non ci furono più né pesi né suoni. Nulla.

— Sono morta? — domandò Semley.

— Oh no, Signora — disse una voce che non le piacque affatto.

Aperti gli occhi, vide la faccia pallida china su di lei, le grosse labbra arricciate in un sorriso, gli occhi simili a piccoli sassi. I legami che l'avevano tenuta ferma non c'erano più, e Semley si rizzò a sedere. Scoprì di essere priva di peso e priva di corpo; le parve di essere soltanto un soffio di terrore nel vento.

— Non ti faremo del male — disse la voce cupa (o erano più voci?). — Permettici soltanto di toccarti, Signora. Ci piacerebbe toccarti i capelli. Lasciati toccare i capelli…

Il carro a forma di boccia che li trasportava ebbe un leggero fremito. Al di là dell'unica finestra si stendeva una notte senza stelle, o la nebbia, o il nulla. Una sola, lunga notte, avevano detto. Fu molto lunga. Semley continuò a sedere immobile e sopportò il tocco delle mani grige e pesanti che le sfioravano i capelli. Più tardi le chiesero di toccarle le mani e i piedi, e le braccia; quando uno le toccò la gola, lei strinse i denti e si alzò in piedi. Quelli indietreggiarono.

— Non ti abbiamo fatto male, Signora — protestarono. Lei scosse il capo.

Quando la invitarono a farlo, Semley si sdraiò di nuovo sulla sedia che le impediva di muoversi; e quando giunse dalla finestra un lampo di luce dorata, lei avrebbe voluto piangere di gioia, ma svenne prima.

— Bene — disse Rocannon, — adesso almeno sappiamo cos'è.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è — mormorò Ketho. — Vuole qualcosa che abbiamo qui al museo; è questo, ciò che hanno detto i trog?


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