Si scusa dicendo che era veramente troppo allettante e che non si è potuto trattenere. Io gli rispondo freddamente.

Comincia a cadere una pioggerellina gelida. Il viale davanti a noi è come velato da una foschia ondeggiante. Oltrepassiamo il 17° rione (la traversa è lastricata), passiamo davanti ad un furgone arrugginito con le gomme a terra, davanti a un edificio ben conservato, rivestito di granito, con grate arabescate alle finestre del primo piano; alla nostra sinistra comincia un parco, separato dal viale da un basso muretto.

Nel momento in cui ci troviamo a passare davanti allo sbilenco arco del cancello di ingresso, dai cespugli bagnati, ormai inselvatichiti, accompagnato da un gran rumore e da un suono di campanelli, salta sul muretto un uomo grottesco, lungo lungo e tutto colorato.

È magro come uno scheletro, ha le guance cascanti e gli occhi vitrei. Foglioline bagnate di cerfoglio gli spuntano da tutte le parti, traballano le braccia indebolite e disarticolate; le gambe nude invece si contorcono di continuo e saltellano sul posto, tanto che da sotto gli enormi gradini svolazzano da ogni parte foglie cadute e briciole di cemento bagnato.

Indossa, dalla testa ai piedi, una specie di tuta di maglia di vari colori — rosso, giallo, blu e verde — e i campanelli che porta cuciti qua e là sulle maniche e sui pantaloni suonano in continuazione mentre le dita affusolate schioccano forte e ripetutamente secondo un ritmo scoordinato. Un pagliaccio. Un Arlecchino. I suoi gesti sarebbero buffi, se non fossero così terrificanti: in quella città morta, sotto una pioggia grigia, sullo sfondo di un parco solitario, diventato ormai un bosco. Si tratta, senza dubbio, di un pazzo. Ancora un pazzo.

In un primo momento mi era sembrato lo stesso che avevamo incontrato in periferia. Ma quello aveva dei nastri colorati e uno stupido cappello a punta con la campanella in cima, era molto più basso, e non sembrava così macilento. Semplicemente erano tutti e due variopinti e tutti e due pazzi, e sembrava incredibile che i primi due indigeni incontrati su questo pianeta fossero dei clown impazziti.

— Non è pericoloso, — dice Ščekn.

— Dobbiamo aiutarlo, — rispondo.

— Come vuoi. Ci darà fastidio.

Lo so pure io che ci darà fastidio, ma non si può farci nulla, e comincio ad avvicinarmi al pagliaccio in lacrime, preparando nel guanto la ventosa con il tranquillante.

— Pericolo alle spalle! — grida Ščekn.

Mi giro di scatto, ma in quella parte della strada non c’è niente di particolare: una villetta a due piani con resti di vernice di un sinistro color viola, colonne false, nemmeno un vetro intero, l’arco di una porta al secondo piano è spalancato nelle tenebre. Una casa è solo una casa, tuttavia Ščekn la guarda fisso, la punta con un’attenzione carica di tensione. Si accoccola sulle zampe, pronto a scattare, abbassa la testa e drizza le piccole orecchie triangolari. Sento dei brividi alla schiena: dall’inizio della marcia non avevo ancora visto Ščekn in questa posizione. Dietro di noi risuonano lamentosi i campanelli, poi all’improvviso si fa silenzio. Si sente solo il fruscio della pioggia.

— In quale finestra? — chiedo.

— Non lo so. — Ščekn sposta lentamente la grossa testa da destra a sinistra. — In nessuna finestra. Vuoi che diamo un’occhiata? Ma ora è già di meno… — La testa si solleva lentamente. — È tutto. Come prima.

— Che cosa?

— Come prima.

— C’è pericolo?

— C’era pericolo fin dall’inizio. Debole. Ma poi è diventato più forte. E ora è come all’inizio.

— Uomini o animali?

— Un odio fortissimo. Non si capisce cosa sia.

Mi giro a guardare il parco. Il pagliaccio folle non c’è più e non si riesce a distinguere nulla attraverso il verde fitto e bagnato.

Vanderchuze è terribilmente preoccupato. Dètto il mio rapporto. Vanderchuze teme che sia stata un’imboscata e che il pagliaccio dovesse distrarmi. Non riesce a capire che in questo caso l’imboscata è riuscita, perché il pagliaccio mi ha effettivamente distratto a tal punto che oltre a lui non ho né visto né sentito niente. Vanderchuze propone di inviarci un gruppo di sostegno, ma io rifiuto. Il nostro è un compito da poco, e con ogni probabilità saremo noi che andremo a far da sostegno al gruppo di Espada.

Comunicazione dal gruppo di Espada: li hanno bombardati con proiettili traccianti. A quanto pare un bombardamento di preavviso. Espada continua a muoversi, noi anche. Vanderchuze è agitatissimo, ha una voce terribilmente lamentosa.

Col capitano non abbiamo proprio avuto fortuna. Il capitano dell’Espada è un Progressore, il nostro è Vanderchuze. Ovviamente c’è una ragione: Espada è un gruppo di contatto, Rem è la principale fonte di informazioni, ed io e Ščekn siamo semplicemente degli esploratori a piedi in una zona deserta e priva di pericoli. Un gruppo di appoggio. Ma se dovesse accadere qualcosa, — e qualcosa succede sempre, — ci toccherà contare solo su noi stessi. In fin dei conti il vecchio e caro Vanderchuze è solo un astronauta, una vecchia volpe del cosmo. Ha nel sangue il paragrafo 06/3 del regolamento: «In caso di scoperta, sul pianeta, di tracce di vita umana partire IMMEDIATAMENTE, dopo aver fatto sparire, nei limiti del possibile, ogni traccia della propria presenza…». E qui c’è addirittura un bombardamento di preavviso, un chiaro segno che non desiderano entrare in contatto, e ciò nonostante nessuno si prepara a partire, ma anzi continuano ad avanzare e si cacciano chissà dove…

Smette di piovere. Le rane saltellano sull’asfalto bagnato. È chiaro cosa mangino i serpenti. Ma che mangiano le rane? Le zanzare. Le case diventano sempre più lussuose. Un lusso spelacchiato e ammuffito. Una lunga colonna di camion di varie dimensioni è ferma lungo il ciglio della strada, sul lato sinistro. Evidentemente qui si teneva la sinistra. Molti camion sono aperti, nei cassoni sono accatastate masserizie domestiche. Sono le tracce di un esodo di massa, solo non è chiaro perché si siano mossi in direzione del centro cittadino. Forse si dirigevano al porto?

Sbuchiamo in una piazza e ci fermiamo subito, perché vediamo un cannone. È sistemato dietro l’angolo, è tozzo, sembra quasi saldato all’asfalto: la lunga bocca da fuoco con la pesante maniglia del freno, l’ampio scudo ricoperto di disegni mimetici a zigzag, il grande affusto, le pesanti ruote gommate… Da questa posizione aveva sparato spesso, ma molto, molto tempo prima. I bossoli dei proiettili sparati sono sparsi intorno, completamente corrosi dall’ossido verde e rosso, i ganci dell’affusto hanno squarciato l’asfalto e affondano ora nell’erba fitta, e persino un alberello è riuscito a spuntare oltre la fiancata sinistra. La culatta arrugginita pende da una parte, l’alzo manca completamente, e dietro giacciono in disordine casse di munizioni putrefatte, semidistrutte, tutte vuote. Qui hanno sparato fino all’ultimo proiettile.

Guardo al di sopra dello scudo e vedo dove hanno sparato. Cioè, prima vedo un’enorme breccia ricoperta di edera, nella parete della casa di fronte, e solo dopo mi balza agli occhi un’incongruenza architettonica. Ai piedi della casa, proprio come un cavolo a merenda, sta un piccolo padiglione di un color giallo opaco, a un piano solo, con il tetto basso, e ora mi è chiaro che hanno sparato proprio contro di esso, mirando dritto, quasi con ostinazione, da una cinquantina di metri, e gli squarci nella parete della casa non sono altro che colpi a vuoto, sebbene, da quella distanza, mancare il colpo sembrasse impossibile. Del resto, i colpi a vuoto non sono poi molti, e ci si può solo meravigliare della solidità di quella squallida costruzione gialla che, nonostante i tanti colpi ricevuti, non è diventata un mucchietto di spazzatura.

Il padiglione è assolutamente fuori posto, e da principio mi sembra che siano stati i terribili colpi dei proiettili a spostarlo dal suo posto, a farlo cadere all’indietro, a trascinano per il marciapiede e quasi a piantarlo ad angolo Contro il muro della casa. Ma, chiaramente, non è andata così. I proiettili hanno provocato sulla facciata gialla dei fori dai bordi fusi e anneriti e sono esplosi all’interno, così che gli ampi battenti del grande ingresso si sono aperti verso l’esterno e, contorti, ora pendono appesi a fili invisibili. All’interno è ovviamente scoppiato un incendio, e tutto quello che c’era è bruciato, e le lingue delle fiamme hanno lasciato nere tracce sull’ingresso, di qua e di là dalla breccia. Ma il padiglione si trova proprio là, dove l’avevano messo fin dall’inizio degli architetti strampalati, ostruendo completamente il marciapiede e occupando parte della sede stradale, cosa che doveva indubbiamente disturbare il movimento dei trasporti.


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