Tutto questo è avvenuto molti, moltissimi anni fa, e ormai è scomparso da tempo l’odore degli incendi e degli spari, ma l’atmosfera di odio viscerale, di rabbia, di follia, che allora spingeva gli sconosciuti artiglieri si è stranamente conservata e opprime l’anima.
Ricomincio a dettare il rapporto e Ščekn, allontanatosi un po’, con il labbro sprezzantemente all’ingiù brontola a bella posta a voce alta, storcendo l’occhio giallo: «Uomini… Ci può forse essere dubbio… È chiaro, sono uomini… Ferro e fuoco, rovine, sempre lo stesso…». Evidentemente sente anche lui questa atmosfera e, probabilmente, in modo ancora più intenso di me. Inoltre gli vengono in mente le contrade natie, i boschi disseminati di tecniche assassine, le radure arse fino ad essere ridotte in cenere, dove sporgono mortali i tronchi degli alberi carbonizzati e radioattivi e la terra stessa è intrisa di odio, di paura e di morte…
In questa piazza non abbiamo più niente da fare. Si possono solo fare ipotesi e immaginare quadri uno peggiore dell’altro. Proseguiamo e penso che, al momento della catastrofe totale, le civiltà fanno venire in superficie tutta la malvagità, tutte le lordure che si sono accumulate durante i secoli nei geni dell’intelletto. Le forme di questo tartaro sono straordinariamente varie, e da esse si può giudicare quanto disgraziata fosse quella civiltà al momento del cataclisma, ma molto poco si può dire sulla natura del cataclisma, perché i più vari cataclismi — si tratti di un’epidemia totale o di una guerra mondiale o di una catastrofe geologica — portano in superficie sempre lo stesso tartaro: odio, egoismo bestiale, crudeltà, che sembrano giustificati, ma non hanno invece nessuna giustificazione…
Comunicazione da Espada: è riuscito a entrare in contatto. Ordine di Komov: tutti i gruppi preparino gli apparecchi traduttori per lo scambio di informazione linguistica. Sposto la mano sulla schiena, trovo a tastoni l’interruttore del traduttore portatile e lo faccio scattare…
2 giugno dell’anno 78. Maja Glumova, amica di Lev Abalkin
Non persi tempo ad avvertire Maja della mia visita, e alle nove precise mi recai alla Piazza della Stella.
All’alba aveva leggermente piovuto, e l’enorme cubo di marmo non lucidato del museo luccicava tutto bagnato sotto il sole. Da lontano vidi davanti all’ingresso principale una piccola folla e, avvicinandomi, sentii delle esclamazioni scontente e deluse. Pare che dal giorno prima il museo fosse chiuso ai visitatori perché si stava preparando una nuova mostra. Non stetti a perder tempo all’ingresso. Ero già stato nel museo e sapevo dove si trovava l’ingresso del personale. Feci il giro dello stabile e per un vialetto ombroso arrivai a una porticina bassa, che si notava appena dietro il muro ininterrotto di rampicanti intrecciati. Questa porta, di una plastica che imitava il legno di quercia, era anch’essa chiusa. Sulla soglia si dava da fare un robot pulitore. Aveva un’aria proprio abbattuta: durante la notte, poveraccio, si era completamente scaricato, e ora, lì, all’ombra, aveva poche possibilità di caricarsi di nuovo.
Lo scansai con un piede e bussai furiosamente. Risuonò una voce d’oltretomba:
— Il Museo delle Civiltà Extraterrestri è temporaneamente chiuso per la sistemazione delle sale centrali per la nuova mostra. Ci scusiamo e vi preghiamo di tornare fra una settimana.
— Avanti marsch! — dissi ad alta voce, contando su una certa sorpresa.
Intorno non c’era nessuno, ovviamente, solo il robot strideva inquieto intorno alle mie gambe. Evidentemente, lo interessavano le mie scarpe.
Gli diedi una spinta e di nuovo bussai col pugno alla porta.
— Il Museo delle Civiltà Extraterrestri… — ricominciò la voce d’oltretomba e all’improvviso tacque.
La porta si spalancò.
— Guarda, guarda, — dissi ed entrai.
Il robot rimase fuori.
— Beh? — gli dissi. — Entra.
Ma lui indietreggiava, non si decideva e all’improvviso la porta si richiuse.
Nei corridoi c’era un odore non molto forte, ma molto particolare. Avevo notato già da tempo che ogni museo ha il suo odore. C’è un odore particolarmente forte nei musei zoologici, ma anche qui puzzava parecchio. Di civiltà extraterrestri, bisogna supporre.
Diedi un’occhiata nella prima sala che capitò, e vi trovai due ragazze molto giovani che, con in mano dei saldatori molecolari, si davano da fare nelle viscere di una specie di costruzione che ricordava una gigantesca matassa di filo spinato. Chiesi dove potessi trovare Maja Tojvovna, ricevetti indicazioni precise, e continuai a vagare per i corridoi e le sale del settore specializzato in oggetti materiali di uso sconosciuto. Non incontrai nessuno. La maggior parte degli impiegati era, evidentemente, nelle sale centrali, dove ci si occupava della nuova mostra, e qui non c’era niente e nessuno, oltre agli oggetti di uso sconosciuto. Ma di questi oggetti ne avevo ormai visti a sazietà, e fra l’altro mi ero formato la convinzione che il loro uso sarebbe rimasto sconosciuto per i secoli dei secoli, amen.
Trovai Maja Tojvovna nel suo studio. Quando entrai, sollevò verso di me il viso. Era bella, anzi molto bella: aveva magnifici capelli castani, grandi occhi grigi, il naso leggermente all’insù, forti mani nude con le dita affusolate, un’ampia camicetta senza maniche a righe verticali bianche e nere. Una donna affascinante. Sul sopracciglio sinistro aveva un piccolo neo scuro.
Mi guardò con aria distratta, cioè guardò non me ma attraverso me. Taceva. Sul tavolo non c’era niente, solo le sue braccia giacevano sulla scrivania, come se lei ce le avesse messe e se ne fosse poi dimenticata.
— Chiedo scusa, — dissi. — Mi chiamo Maksim Kammerer.
— Sì, l’ascolto.
Anche la sua voce era distratta e non diceva la verità: lei non mi ascoltava affatto. Ed era chiaro che per oggi non aveva proprio voglia di starmi a sentite. Una persona educata al posto mio si sarebbe scusata e se ne sarebbe andata in silenzio. Ma io non mi potevo permettere di essere una persona educata. Ero un collaboratore del COMCON-2 al lavoro. Perciò non mi scusai, e nemmeno me ne andai, ma semplicemente mi sedetti nella prima poltrona che capitò e, cercando di assumere un’espressione di bonaria cordialità, chiesi:
— Cosa succede oggi al museo? Non fanno entrare nessuno…
Parve meravigliarsi.
— Non fanno entrare? Davvero?
— Proprio così! Sono riuscito ad entrare solo dalla porta di servizio…
— Ah, sì… Scusi, ma lei chi è? Posso fare qualcosa per lei?
Ripetei che ero Maksim Kammerer e cominciai a raccontare la mia storiella.
A questo punto avvenne qualcosa di straordinario. Appena pronunciai il nome di Lev Abalkin, lei si svegliò subito. L’aria distratta scomparve, il suo volto si accese e mi divorò letteralmente con i suoi occhi grigi. Ma non disse nemmeno una parola e mi stette ad ascoltare fino alla fine. Sollevò solo lentamente dal tavolo le mani, incrociò le lunghe dita e vi poggiò sopra il mento.
— Lo ha conosciuto? — chiese.
Raccontai della spedizione alla foce del Serpente Azzurro.
— E scriverà di tutto questo?
— Ovviamente, — dissi. — Ma è ancora poco.
— Poco, per che cosa? — chiese.
Sul viso le era apparsa una strana espressione, come se si sforzasse di non scoppiare in una risata. Persino gli occhi le luccicavano.
— Vede, — cominciai di nuovo, — vorrei mostrare come Abalkin sia diventato il più importante specialista nel suo campo. Nell’ambito della zoopsicologia e della sociopsicologia ha prodotto qualcosa del tipo…
— Ma lui non è diventato uno specialista nel suo campo, — disse. — Hanno fatto di lui un Progressore. Loro…
No, non era riso quello che stava trattenendo, ma lacrime. E ora non riuscì più a trattenerle. Si coprì il viso con le mani e scoppiò a piangere. Oh Signore! Le lacrime delle donne sono sempre una cosa terribile, e in questo caso per di più non ci capivo niente. Singhiozzava impetuosa, dimentica di tutto, come un bambino, sussultando in tutto il corpo, e io me ne stavo seduto come un cretino e non sapevo che fare. In questi casi si offre sempre un bicchier d’acqua, ma in quello studio non c’era né un bicchiere né l’acqua, né niente altro del genere, c’erano solo vetrine zeppe di oggetti di uso sconosciuto.