Procediamo per un quartiere insolitamente deserto. Nessun segno di vita, perfino le zanzare sono sparite. Questo non mi piace, in Ščekn invece non suscita nessun allarme.

— Questa volta siete in ritardo, — ringhia.

— Sì, sembra proprio così, — rispondo prontamente.

Dopo l’incidente del granchio-ragno è la prima volta che Ščekn parla. Sembra che abbia voglia di discorrere del più e del meno. È un’inclinazione che non ha spesso.

— I Nomadi, — borbotta, — l’ho sentito molte volte: i Nomadi, i Nomadi… Non sapete proprio niente di loro?

— Molto poco. Sappiamo che è una superciviltà e che sono molto più potenti di noi. Supponiamo che non siano umanoidi. Pensiamo che abbiano colonizzato tutta la nostra Galassia, molto, molto tempo fa. Pare, inoltre, che non abbiano una casa, nella nostra o vostra accezione di questo termine. Per questo li chiamiamo Nomadi…

— Volete incontrarli?

— Come dirti… Komov darebbe volentieri la sua mano destra per una cosa del genere. Io, invece, preferirei non incontrarli mai…

— Hai paura di loro?

Non ho voglia di parlarne. Specialmente ora.

— Vedi, Ščekn, — dico, questo è un lungo discorso. Sarebbe meglio che ti guardassi intorno, perché mi sembra che tu sia diventato un po’ distratto.

— Sto guardando. Tutto calmo.

— Hai notato che qui non c’è più segno di vita?

— Dipende dal fatto che qui c’è spesso gente, — risponde Ščekn.

— Davvero? — dico. — Beh, mi sento più tranquillo.

— Ora non c’è nessuno. Quasi.

Il 42° rione termina, arriviamo ad un incrocio. Ščekn annuncia all’improvviso:

— Dietro l’angolo c’è un uomo. Uno.

È un vecchio barbogio con un cappotto nero che gli arriva fino ai calcagni, un berretto di pelliccia con i paraorecchie legati sotto una barba sporca e arruffata, con dei guanti di un vivace giallo chiaro, delle enormi scarpe con la tomaia in tessuto. Si muove con difficoltà, trascina a stento le gambe. E a circa trenta metri, ma anche a questa distanza si sente chiaramente che respira a fatica, con un fischio, e di tanto in tanto geme per lo sforzo.

Carica della roba su un carretto con alte rotelle sottili, qualcosa come una carrozzina per bambini. Si infila in una vetrina infranta, sparisce e poi ritorna indietro lentamente, tenendo stretti al petto due o tre barattoli con etichette vistose. Ogni volta, appena torna alla sua carrozzina, si lascia cadere sfinito sul seggiolino triangolare, per un po’ rimane seduto immobile, si riposa, poi comincia piano piano e con cautela a togliersi i barattoli da sotto il braccio e a sistemarli sul carretto. Poi si riposa di nuovo, come se dormisse seduto; e di nuovo si rialza sulle gambe tremanti e si dirige verso una vetrina, lungo, nero, piegato quasi a metà.

Noi rimaniamo fermi all’angolo, senza nasconderci, perché è chiaro: il vecchio non vede e non sente nulla intorno a sé. Secondo Ščekn, è completamente solo, non c’è più nessuno, tranne, forse, qualcuno molto lontano. Non ho il minimo desiderio di entrare in contatto con lui ma, evidentemente, bisognerà farlo, se non altro per aiutarlo con tutti quei barattoli. Ma ho paura di spaventano. Chiedo a Vanderchuze di mostrarlo a Espada, in modo che Espada possa precisare chi sia: uno “stregone”, un “soldato” od un “uomo”.

Il vecchio ha scaricato per la decima volta i suoi barattoli e ora si riposa, raggomitolato sul sellino triangolare. La testa gli trema leggermente e si china sempre più in basso sul petto. Chiaramente, si sta addormentando.

— Non ho mai visto niente del genere, — annuncia Espada. — Parli con lui, Lev…

— Sembra molto vecchio, — dice dubbioso Vanderchuze.

— Ora muore, — brontola Ščekn.

— Proprio, — dico. — Specialmente se ora gli compaio davanti in questo mio saio arcobaleno.

Non faccio in tempo a finir di parlare. Il vecchio all’improvviso scivola in avanti e cade dolcemente sul selciato.

— È finita, — dice Ščekn. — Puoi andare a vedere, se ti interessa.

Il vecchio è morto, non respira, e il polso non si sente. A quanto pare, ha avuto un infarto e inoltre l’organismo è molto deperito. Ma non per la fame. È, semplicemente, molto vecchio, incredibilmente vecchio. Sto in ginocchio e guardo la sua faccia ossuta, di un colore bianco-verdastro, le ispide sopracciglia grigie, la bocca sdentata dischiusa, le guance cascanti. È un viso molto umano, proprio terrestre. Il primo uomo normale in questa città. Ed è morto. E non posso far nulla perché ho con me solo l’apparecchiatura da campo.

Gli inietto due fiale di necrofago e dico a Vanderchuze di mandare un medico. Non ho intenzione di trattenermi qui. Non ha senso. Lui non parlerà. E anche se lo farà, non sarà presto. Prima di andarmene, rimango fermo ancora un minuto accanto a lui, guardo la carrozzina, carica per metà di barattoli di conserve, il sedile capovolto, e penso che il vecchio, probabilmente, si è trascinato dietro il suo sgabello dappertutto e a ogni momento ci si sedeva per riposare…

Intorno alle diciotto comincia a far buio. Secondo i miei calcoli, alla fine del nostro percorso mancano ancora due ore di cammino, perciò propongo a Ščekn di riposarci e di mangiare. Ščekn non sente il bisogno di riposarsi, ma come sempre non si lascia sfuggire l’occasione di mangiare ancora una volta.

Ci sistemiamo al bordo di un’ampia fontana asciutta, sotto la protezione di un mostro mitologico con le ali di pietra, e io apro i pacchetti dei generi alimentari. Intorno a noi spiccano opache le mura delle case morte, c’è un silenzio mortale, e fa piacere pensare che a una decina di chilometri da noi non c’è più un deserto di morte, ma ci sono persone che lavorano.

Durante il pasto Ščekn non parla mai, però, appena è sazio, gli piace chiacchierare.

— Quel vecchio, — inizia, leccandosi accuratamente la zampa, — l’hanno veramente fatto rivivere?

— Sì.

— È di nuovo vivo, cammina, parla?

— È difficile che parli ed ancor meno che cammini, ma è vivo.

— Peccato, — borbotta Ščekn.

— Peccato?

— Sì. Peccato che non parli. Sarebbe interessante sapere com’è là…

— Là dove?

— Là dov’è andato quando era morto.

Mi metto a ridere.

— Pensi che là ci sia qualcosa?

— Ci deve essere. Devo andare da qualche parte, quando non ci sarò più.

— Dove va a finire la corrente elettrica, quando la spengono? — chiedo.

— Non sono mai riuscito a capirlo, — confessa Ščekn. — Ma il tuo ragionamento non è esatto. È vero, non so dove vada a finire la corrente elettrica, quando la spengono. Ma non so nemmeno da dove venga quando la accendono. E, invece, da dove sono venuto io lo so e lo capisco.

— E dove eri, quando ancora non esistevi? — domando maliziosamente.

Ma per Ščekn questo non è un problema.

— Ero nel sangue dei miei genitori. E, prima ancora, nel sangue dei genitori dei miei genitori…

— Allora, quando non esisterai più, sarai nel sangue dei tuoi figli…

— E se non avrò figli?

— Allora sarai nella terra, nell’erba, negli alberi…

— Non è così! Nell’erba e negli alberi ci sarà il mio corpo. Ma io dove sarò?

— Anche nel sangue dei tuoi genitori non c’eri tu, ma il tuo corpo. Tu non puoi ricordare come eri nel sangue dei tuoi genitori.

— Come non me lo ricordo? — si meraviglia Ščekn. — Lo ricordo benissimo!

— Sì, certo… — borbotto io, ormai vinto. — Voi avete una memoria genetica…

— Puoi chiamarla come vuoi, — brontola Ščekn. — Ma veramente non capisco dove andrò a finire quando morirò. Inoltre, non ho figli…

Decido di tagliar corto con questa discussione. Ormai è chiaro: non riuscirò mai a dimostrare a Ščekn che là non c’è niente. Per questo incarto in silenzio il pacchetto con i viveri, lo metto nello zaino e mi sistemo più comodamente, allungando le gambe.

Ščekn si lecca con cura l’altra zampa, si mette in ordine il pelo sulle guance e di nuovo si mette a far conversazione.


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