Qualche minuto dopo, dalla facciata della casa sulla destra si stacca e frana a terra il balcone del terzo piano. Chiedo in fretta a Ščekn se il pericolo non sia diminuito, e lui, senza pensarci su, mi risponde che è diminuito ma non di molto. Voglio chiedergli da che parte ora ci minacci, ma in quel preciso momento mi colpisce un’aria densa, mi fischia nelle orecchie, a Ščekn si drizza il pelo.

Sul viale pare che si scateni un piccolo uragano. È caldissimo e puzza di ferro. Ancora un paio di balconi e di cornicioni franano su entrambi i lati della strada. Da una lunga casa tozza si stacca il tetto, e la casa, vecchia, piena di buchi, fatiscente, si attorciglia lentamente su se stessa e cade in pezzi, invade la strada e sparisce in una nuvola di polvere giallo marcio,

— Che sta succedendo lì da voi? — si informa Vanderchuze.

— C’è uno spiffero… — rispondo fra i denti.

Un nuovo colpo di vento mi costringe a correre avanti, contro la mia volontà. Mi sento umiliato.

— Abalkin! Ščekn! — tuona Komov. — Tenetevi nel mezzo! Il più lontano possibile dai muri. Faccio ripulire la piazza, c’è pericolo di crolli…

E per la terza volta un breve uragano caldo soffia lungo il viale, proprio nel momento in cui Ščekn cerca di girarsi col naso al vento. Lo stacca da terra e facendolo slittare. Lo trascina lungo la strada con l’umiliante compagnia di uno sbalordito ratto.

— Finito? — chiede arrabbiato, quando l’uragano si acquieta. Non cerca nemmeno di rialzarsi in piedi.

— Finito, — dice Komov. — Potete proseguire la perlustrazione,

— Molte grazie, — risponde Ščekn, velenoso come un serpente.

Nell’etere qualcuno ridacchia, ma cerca di trattenersi. Mi pare sia Vanderchuze.

— Mi scuso, — dice Komov. — Ma dovevo spazzar via la nebbia.

Per tutta risposta Ščekn se ne esce con l’improperio più lungo e significativo che ci sia nella lingua dei Testoni, si rialza, si scrolla furiosamente e all’improvviso resta fermo in una posizione molto scomoda.

— Lev, — dice, — non c’è più pericolo. Assolutamente. È stato spazzato via.

— Almeno questo, — rispondo io.

Informazione da Espada. Descrizione molto pittoresca del Futurorecchio capo. Me lo vedo davanti: incredibilmente sporco, puzzolente, coperto di tigna, un vecchiaccio a cui daresti almeno duecento anni e che afferma di averne ventuno. Parla con voce arrochita, tossisce, scatarra e si soffia il naso, tiene sempre sulle ginocchia un fucile a ripetizione e di tanto in tanto fa fuoco sopra la testa di Espada, alle domande non vuole rispondere, però gli piace farle; ma non sta a sentire le risposte e una risposta si e una no afferma che è una bugia…

Il viale finisce in un’altra piazza. Per la verità non è proprio una piazza. Semplicemente, sulla destra si trova un giardino semicircolare, dietro cui si intravede un lungo edificio giallo con la facciata concava, ornata da finte colonne. La facciata è gialla e i cespugli nel giardino sono di uno smunto color giallo, come se si fosse alla vigilia dell’autunno, e perciò non noto subito nel mezzo del giardino un altro “bicchiere”.

Ma questa volta è tutto intero e brilla come se fosse nuovo, come se l’avessero messo qui solo stamattina, in mezzo ai cespugli gialli. Il cilindro è alto circa due metri, ha il diametro di uno ed è fatto di un materiale trasparente simile all’ambra. Sta in posizione verticale, e lo sportello ovale è ben chiuso.

A bordo, da Vanderchuze, c’è un’esplosione di entusiasmo, ma Ščekn ancora una volta dimostra la sua indifferenza e addirittura il suo disprezzo per tutti questi oggetti «che non sono interessanti per il suo popolo»: comincia subito a grattarsi, dando la schiena al “bicchiere”.

Faccio il giro del “bicchiere”, poi afferro con due dita la maniglia sullo sportello ovale e do un’occhiata all’interno. Uno sguardo mi è sufficiente: riempiendo con le sue mostruose ossa articolate tutto lo spazio, tenendo avanti a sé le chele spinose lunghe mezzo metro, mi fissa, ottuso e minaccioso, con due file di albugini verde-opaco, un gigantesco granchio-ragno di Pandora in tutto il suo splendore.

In me scatta non la paura, ma un positivo riflesso davanti a qualcosa di assolutamente inatteso. Non faccio in tempo nemmeno ad aprir bocca, che già con tutte le mie forze spingo con le spalle la porta subito richiusa e punto i piedi contro il terreno. Bagnato di sudore da capo a piedi, mi tremano le vene.

Ma Ščekn è subito al mio fianco, pronto alla mischia. Si dondola sulle zampe tese ed elastiche, spostando da un lato all’altro, in segno di attesa, la testa dall’ampia fronte. I denti, di un bianco accecante, brillano e rivoli di saliva gli scendono agli angoli della bocca. Il tutto dura un paio di secondi, dopo di che chiede in tono litigioso:

— Che cosa è successo? Chi ti ha fatto del male?

Trovo con le dita l’impugnatura del disintegratore, mi costringo a staccarmi da quella maledetta porta e comincio a indietreggiare, tenendo il disintegratore pronto. Ščekn indietreggia insieme a me, sempre più irritato.

— Ti ho fatto una domanda! — dice sdegnato.

— Ma come, — gli dico fra i denti, — non hai ancora sentito nulla?

— Dove? In quella cabina? Là non c’è niente!

Vanderchuze e gli esperti schiamazzano agitati alle mie orecchie. Non li sto a sentire. So anche senza di loro che si può, per esempio, puntellare la porta con delle assi — ammesso che se ne trovino — oppure darle fuoco con il disintegratore. Continuo a indietreggiare, senza levare gli occhi dalla porta del “bicchiere”.

— Nella cabina non c’è niente! — insiste Ščekn. — E non c’è nessuno. E sono anni che non c’è nessuno. Vuoi che apra la porta e ti mostri che là non c’è nessuno?

— No, — dico, riuscendo a spuntarla sulle mie corde vocali. — Andiamocene.

— Apro solo la porta…

— Ščekn, — dico. — Ti stai sbagliando.

— Noi non ci sbagliamo mai. Vado io. Vedrai.

— Ti sbagli! — ruggisco. — Se ora non vieni via con me, significa che non sei mio amico e che te ne infischi di me!

Mi giro deciso sui tacchi (con il disintegratore in mano, la sicura levata, il regolatore sulla scarica continuativa) e me ne vado. Mi sembra di avere una schiena enorme, occupa il viale in tutta la sua ampiezza, ed è assolutamente priva di difese.

Ščekn, con aria scontenta e sprezzante, striscia verso sinistra e all’indietro. Brontola e vuole attaccar briga. Quando ci siamo allontanati di unì duecento passi e mi sono ormai completamente tranquillizzato e comincio a cercare il modo di far pace, Ščekn scompare all’improvviso. Solo le sue unghie picchiettano l’asfalto. Ed ecco è di nuovo accanto al cilindro, ed è ormai tardi per slanciarmi dietro di lui, per afferrano per le zampe posteriori e trascinare indietro quello sciocco, e il mio disintegratore ormai non serve a niente. Quel maledetto Testone socchiude la porta e a lungo, infinitamente a lungo, guarda dentro il “bicchiere”.

Poi, senza emettere il minimo suono, chiude di nuovo la porta e ritorna indietro. Ščekn è umiliato. Ščekn è annientato. Ščekn ammette senza parlare la sua completa inutilità e perciò è pronto in futuro ad accettare qualsiasi impiego si vorrà fare di lui. Ritorna da me e si siede accanto ai miei piedi, con la testa china. Stiamo zitti. Evito di guardarlo. Guardo il “bicchiere”, sentendo i rivoli di sudore sulle tempie, che si asciugano e si raggrinziscono sulla pelle; sento che quel tremito tormentoso, subentrato a un dolore molesto e noioso, si allontana dal muscolo e più di tutto al mondo ora vorrei sibilargli: «Bestiaccia!» e, di slancio, ripreso fiato, picchiarlo con rabbia sul testone mesto, sciocco, ostinato e scervellato. Invece dico soltanto:

— Abbiamo avuto fortuna. Chissà perché qui non attaccano…

Comunicazione dallo Stato Maggiore. Si suppone che il rettangolo di Ščekn sia l’ingresso in un tunnel interspaziale, attraverso cui è stata evacuata la popolazione del pianeta. Probabilmente dai Nomadi dello Spazio…


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