Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)

Nell’oscurità la città sembrava piatta, come un’antica stampa. La muffa luccicava opaca nel profondo dei neri antri delle finestre, e nei rari giardinetti e sulle aiuole balenavano piccoli e smorti arcobaleni: si sono dischiusi nella notte boccioli di fiori sconosciuti. Si è colpiti da aromi lievi ma irritanti. Da sotto i tetti scivola fuori e si libra sul viale la prima luna, un’enorme falce coperta di tacche, che diffonde sulla città una sgradevole luce arancione.

In Ščekn questa luminosità suscita un disgusto inspiegabile. Gli getta ogni momento sguardi di disapprovazione e ogni volta apre e chiude convulsamente le fauci, proprio come se avesse voglia di ululare e si trattenesse. Questo è ancora più strano, perché nel suo pianeta natale, Sarakš, non si può vedere la luna per via della rifrazione atmosferica, e con la luna terrestre ha sempre avuto un rapporto di completa indifferenza, almeno per quanto ne so io.

Poi notiamo i bambini.

Sono due. Tenendosi per mano, vagano silenziosi per il marciapiede, come se cercassero di nascondersi nell’ombra. Vanno nella stessa direzione in cui andiamo io e Ščekn. A giudicare dai vestiti sono dei maschietti. Uno è più alto, sugli otto anni, l’altro è molto piccolo, avrà quattro o cinque anni. Evidentemente hanno appena svoltato, provenienti da una stradina laterale, altrimenti li avrei già visti da lontano. È già parecchio che camminano, sono molto stanchi e muovono a stento le gambe… Il più piccolo non cammina più, si trascina soltanto, appoggiandosi alla mano del più grande. Il più grande porta a tracolla una borsa, e la sistema continuamente, perché gli sbatte sulle ginocchia.

Il traduttore traduce con una voce secca e indifferente:

«… Sono stanco, mi fanno male i piedi… Cammina, ti ho detto… Cammina… Non sei buono… Pure tu non sei buono, scemo… Serpente con le orecchie… Tu sei una coda di topo velenoso…». Così. Si sono fermati. Il più piccolo leva la mano da quella del più grande e si siede. Il più grande lo solleva per il bavero, ma il piccolo si siede di nuovo, e allora il grande gli dà uno schiaffo. Dal traduttore arrivano di nuovo parole come «topo», «serpente», «animale puzzolente» e così via. Poi il più piccolo si mette a singhiozzare forte, ed il traduttore tace incerto. È ora di farsi avanti.

— Salve, ragazzi, — dico con le sole labbra.

Mi ero avvicinato molto, ma solo ora loro si accorgono di me. Il più piccolo smette all’istante di piangere, mi fissa con la bocca spalancata. Il più grande mi fissa pure lui, ma di sottecchi, con ostilità, e tiene le labbra strette. Mi accoccolo davanti a loro e dico:

— Non abbiate paura. Sono buono. Non vi farò niente di male.

So che i canali di traduzione non ridanno l’intonazione, e perciò cerco di scegliere parole semplici, che li tranquilllizzino.

— Mi chiamo Lev, — dico. — Vedo che siete stanchi. Volete che vi aiuti?

Il più grande non risponde. Continua a guardarmi di sottecchi, con molta diffidenza e accortezza, mentre il più piccolo si interessa subito di Ščekn e non gli leva gli occhi di dosso. Evidentemente lo trova strano e al tempo stesso interessante. Ščekn, con l’aria più mite del mondo siede un po’ in disparte, con la grande testa girata.

— Siete stanchi, — dico. — Volete bere e mangiare. Ora vi do qualcosa di buono…

Ed a questo punto il più grande sbotta. Loro non sono affatto stanchi, e non hanno bisogno di niente di buono. Ora sistema quel serpente dalle orecchie di topo, e poi proseguiranno. E chi li disturberà, si prenderà una pallottola nella pancia. Ecco.

Molto bene. Nessuno li vuole disturbare. Ma dov’è che vanno?

Vanno dove è necessario andare. Ma dove? Forse facciamo la stessa strada? Allora si potrebbe portare sulle spalle il serpente dalle orecchie di topo…

Alla fine tutto si sistema. Mangiano quattro tavolette di cioccolata e bevono due bottiglie di tonico. Nelle piccole bocche entra anche mezzo tubetto a testa di frutta compressa. La tuta arcobaleno di Lev viene osservata con attenzione e (dopo breve, ma estremamente energica discussione) è permesso di accarezzare una volta (solo una!) Ščekn (assolutamente non sulla testa, ma solo sul dorso). A bordo, da Vanderchuze, piangono tutti di commozione, e si sente un gran chiasso. Poi si chiarisce quanto segue.

I ragazzi sono fratelli. Il più grande si chiama Ijadrudan, il più piccolo Pritulatan. Vivono piuttosto lontano da qui (dove precisamente non si riesce a capire), con il padre, in una grande casa bianca con la piscina in cortile. Fino a poco tempo fa con loro stavano due zie ed un fratello più grande — di diciotto anni — ma ora sono morti tutti. Da allora il padre non li prese più con sé quando andava a procurarsi il cibo, cominciò ad andare solo, mentre prima la famiglia andava tutta insieme. Intorno c’erano molte cose da mangiare; là c’era quello, lì c’era quell’altro (non si riuscì a precisare). Ogni volta che usciva il padre lasciava quest’ordine: se prima di sera non fosse ritornato, dovevano prendere il Libro, arrivare a questo viale e andare sempre dritti finché non fossero arrivati a una bella casa di vetro, che brilla nell’oscurità. Ma non dovevano entrare nella casa, dovevano sedersi lì accanto ed aspettare, finché non fosse arrivata gente che li avrebbe condotti là dove avrebbero trovato il padre, la madre e tutti. Perché di notte? Perché di notte per la strada non si fanno brutti incontri. Si fanno solo di giorno. «No, noi non abbiamo visto nessuno, ma abbiamo sentito spesso che fanno suonare dei campanelli, cantano canzoni e ci vogliono far uscire di casa. Una volta papà e il nostro fratello maggiore avevano preso i fucili e avevano cacciato loro una pallottola nella pancia…». No, non sanno altro e non hanno visto altro. Per la verità, tanto tempo fa erano venuti a casa degli uomini con i fucili e tutto il giorno erano stati a discutere con papà e con il fratello maggiore, ma poi la mamma e le zie si erano intromesse. Si erano messi tutti a gridare forte, ma alla fine papà aveva avuto la meglio, quella gente se ne era andata, non si era fatta più vedere…

Il piccolo Pritulatan si addormenta subito, non appena lo prendo sulle spalle. Ijadrudan, invece, rifiuta qualsiasi aiuto. Mi permette solo di sistemare meglio la sua borsa con il Libro ed ora, con aria indipendente, mi cammina accanto con le mani infilate nelle tasche. Ščekn corre avanti, senza prender parte alla conversazione. Con il suo atteggiamento vuoi dimostrare la sua completa indifferenza a quello che accade, ma anche lui come noi è incuriosito dalla logica supposizione che la meta dei bambini — un edificio luminoso — non sia altro che il nostro obiettivo “Macchia-96”.

Che cosa sia scritto nel Libro Ijadrudan non lo sa dire. In questo libro tutti gli adulti scrivevano ogni giorno quello che succedeva. Che Pritulatan era stato morso da una formica velenosa. Che l’acqua all’improvviso era cominciata ad uscire dalla piscina, ma che papà era riuscito a fermarla. Che la zia era morta aprendo una scatola di conserve, la mamma la guardava, ma la zia era già morta… Ijadrudan non aveva letto il Libro, sa leggere male e non gli piace, non è molto portato per la lettura. Invece Pritulatan è molto portato, ma è ancora piccolo e non capisce niente. No, non si sono mai annoiati. Come ci si può annoiare in una casa dove ci siano cinquecentosette stanze? E ogni stanza è piena delle cose più curiose, cene sono persino di quelle che nemmeno papà sa dire che ci stanno a fare. Solo non avevamo nemmeno un fucile. I fucili ora sono una rarità. Forse nella casa accanto avrebbero potuto trovare un fucile, ma papà aveva assolutamente proibito di uscire in strada… «No, papà non ci faceva sparare col suo fucile. Diceva che non era una cosa per noi. Ecco, quando arriveremo alla casa che splende e le brave persone che incontreremo là ci avranno condotto dalla mamma, allora potremo sparare quanto vorremo… Ma forse sei tu che ci porti dalla mamma? Allora perché non hai il fucile? Sei una brava persona, ma non hai il fucile, e invece papà diceva che tutte le brave persone hanno il fucile…».


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