— Siete voi allora le brave persone con i fucili? — chiedo.
Il vecchio marca le sopracciglia.
— Le brave persone? Che cosa significa?
Gli riferisco quello che mi ha spiegato Ijadrudan. Il vecchio annuisce.
— Capito. Sì, siamo noi quelle brave persone. — Mi squadra da capo a piedi. — Ma a voi le cose, vedo, non vanno male… Un apparecchio traduttore sulle spalle… Anche noi ce li avevamo, ma enormi, grandi come una stanza… Ed armi come le vostre non ne abbiamo mai avute. È stato bravo a fare a pezzi quell’essere cattivo! Come con un cannone. Siete atterrati da molto?
— Ieri, — rispondo.
— Noi invece non siamo riusciti a mettere in moto le nostre macchine volanti. Non c’era nessuno che lo sapesse fare. — Di nuovo mi guarda fisso. — Sì, siete stati proprio bravi. Ed invece qui da noi, come vede, è un disastro. Come ci siete riusciti? L’avete respinta? Oppure avete trovato un rimedio?
— Qui il disastro è proprio totale, — dico tenendomi sulle difensive. — Sono qui da un giorno intero e ciò nonostante non capisco nulla…
Mi rendo conto che mi sta prendendo per qualcun altro. Per ora, forse, è la cosa migliore. Solo bisogna stare molto, molto attenti…
— Non capisce nulla, — dice il vecchio. — È molto strano… Davvero da voi non è successo niente del genere?
— No, — rispondo. — Non è successo.
Il vecchio se ne esce all’improvviso con una lunga frase, a cui il traduttore risponde lentamente: «Lingua sconosciuta».
— Non capisco, — dico.
— Non capisce… Eppure mi pareva di non parlar male la lingua di Transmontania.
— Non vengo da lì, — ribatto. — Non ci sono mai stato.
— Da dove viene?
Prendo una decisione.
— Per ora non ha importanza, — dico. — Non parliamo di noi. Da noi va tutto bene. Non abbiamo bisogno di aiuto. Parliamo di voi. Ho capito poco, ma una cosa è evidente: avete bisogno di aiuto. Di quale aiuto, precisamente? Di che cosa avete bisogno per prima cosa? E che cosa sta succedendo qui? Ecco quello di cui ora dobbiamo parlare. Sediamoci, è tutto il giorno che sto in piedi. Possiamo trovare un posto dove sederci a parlare tranquillamente?
Per un po’ mi scruta in viso in silenzio.
— Non vuole dire da dove viene… — esclama alla fine. — Va bene, è un suo diritto. Lei è più forte. Però è una sciocchezza. Tanto io so: lei viene dall’Arcipelago del Nord. Non vi hanno toccato solo perché non si sono accorti di voi. Avete avuto fortuna. Ma vorrei chiederle: dove eravate, quando ci facevano marcire vivi?
— Non siete i soli a cui sia capitata una disgrazia, — ribatto con sincerità. — Solo, ora è il vostro turno.
— Che bellezza! — dice. — Andiamo a sederci e parliamo.
Entriamo nell’androne della casa di fronte, saliamo al primo piano e ci ritroviamo in una stanza sporca, dove ci sono solo: un tavolo al centro, un enorme divano alla parete e due sgabelli accanto alla finestra. Le finestre danno sulla piazza, e la stanza è illuminata dalla luce bianco-azzurra del padiglione. Sul divano c’è qualcuno che dorme avvoltolato in un cappotto lustro. Sul tavolo ci sono dei barattoli di conserve e una grande borraccia metallica.
Appena entrato nella stanza, il vecchio si mette a far ordine. Fa alzare quello che dorme e lo caccia via di casa. Uno degli accigliati giovanotti riceve l’ordine di fare la guardia e si mette sullo sgabello accanto alla finestra, dove poi rimane seduto tutto il tempo, senza perder mai d’occhio la piazza. Il secondo giovanotto accigliato apre abilmente i barattoli di conserve, e poi si mette accanto alla porta, appoggiandosi con la schiena allo stipite.
Vengo invitato a sedermi sul divano, poi avvicinano il tavolo e vi dispongono sopra i barattoli. Nella borraccia c’è acqua comune, abbastanza pulita, che sa però di ferro. Anche S&kn non viene dimenticato. Il soldato che è stato sbattuto giù dal divano gli mette davanti, sul pavimento, un barattolo aperto. Ščekn non rifiuta. Per la verità, non mangia le conserve, ma va alla porta e, previdente, si mette accanto alla sentinella. Poi si gratta con cura, bofonchia, si lecca, per farsi credere un cane comune.
Intanto il vecchio prende l’altro sgabello, si siede di fronte a me e comincia il colloquio.
Prima di tutto il vecchio si presenta. Naturalmente è un pezzo grosso, e non un pezzo grosso qualunque, ma un dirigente, qualcosa del tipo «governatore di tutto il territorio e delle regioni annesse». Sotto la sua giurisdizione si trovano tutta la città, il porto ed una dozzina di tribù, che vivono nel raggio di cinquanta chilometri. Che cosa avviene al di là dei confini di quest’area lui lo sa poco, ma immagina che sia più o meno lo stesso. Il numero complessivo di abitanti della sua regione ora non è più di cinquemila persone. Nella regione non esiste industria, e nemmeno una parvenza di agricoltura organizzata. C’è, è vero, un laboratorio in periferia. Un buon laboratorio, un tempo uno dei migliori del mondo, e lo dirige a tutt’oggi Draudan in persona («… strano che lei non ne abbia sentito parlare… anche lui ha avuto fortuna. È longevo come me…»), ma là non sono arrivati a nulla in questi quaranta anni. Ed è chiaro che non combineranno nulla.
— E perciò, — conclude il vecchio, — non continuiamo a girare intorno alle cose, e non mettiamoci a contrattare. Pongo solo una condizione: se possono esser curati, allora che lo siano tutti. Senza eccezione. Se questa condizione vi sta bene, tutto il resto potete stabilirlo voi. Come volete. Accetto senza discutere. Se no, allora è meglio che ci lasciate in pace. Certo, noi periremo tutti, ma anche voi non avrete pace fintanto che uno di noi sarà ancora vivo.
Taccio. Aspetto ancora che il Quartier Generale mi suggerisca qualcosa. Ma anche lì pare che non ci capiscano nulla.
— Vorrei ricordarle — dico alla fine — che continuo a non capire che cosa succeda qui.
— Allora faccia delle domande! — esclama brusco il vecchio.
— Lei ha detto: curare. Qui c’è un’epidemia?
La faccia del vecchio si fa di pietra. Mi fissa a lungo negli occhi, e poi estenuato si appoggia con i gomiti sul tavolo e si strofina con le dita la fronte.
— Gliel’ho già detto: non giri intorno alla questione. Non abbiamo intenzione di contrattare. Dica in modo chiaro e semplice: avete una medicina? Se l’avete, dettate pure le condizioni. Se no, non abbiamo niente da dirci.
— Così non faremo un passo avanti, — dico. — Partiamo invece dal presupposto che io non sappia assolutamente nulla. Sono stato in letargo per quaranta anni, per esempio. Non so che malattia avete, non so che medicina vi serve…
— E anche dell’Invasione non sa nulla? — chiede il vecchio, senza aprire gli occhi.
— Quasi niente.
— E del Rapimento Generale non sa niente?
— Quasi niente. So che se ne sono andati tutti. So che vi sono coinvolti in qualche modo dei forestieri venuti dallo spazio. Niente altro.
— Fo-re-stie-ri… dallo Spa-zio… — ripete con difficoltà il vecchio in russo.
— Uomini venuti dalla Luna… dal cielo… — dico.
Digrigna i forti denti giallastri.
— Né dal cielo e né dalla Luna. Da sottoterra! — dice. — Allora, qualche cosa la sa…
— Ho attraversato la città. E ho visto molto.
— E da voi non è successo proprio nulla? Nulla?
— Non c’è mai stato niente di simile, — affermo deciso.
— E non si è accorto di niente? Non si è accorto della fine dell’umanità? La smetta di mentire! Che cosa si propone di ottenere con queste menzogne?
— Lev! — mi sussurra sotto il casco la voce di Komov. — Fai la parte del cretino!
— Sono un subalterno, — annuncio seccamente. — So solo quello che mi spetta sapere! Faccio solo quello che mi viene ordinato di fare! Se mi ordinano di mentire, mento, ma ora non mi è stato dato nessun ordine del genere.
— E quale ordine le è stato dato?
— Fare una perlustrazione nella sua regione e comunicare tutte le circostanze.