— Quando è stato?

— L’altro ieri. E tu perché hai deciso che non ha più niente a che fare con il popolo dei Testoni?

Annunciò all’improvviso:

— Stiamo perdendo tempo. Non fare domande inutili. Fa’ le domande giuste.

— Va bene. Faccio una domanda giusta: dove si trova ora?

— Non lo so.

— Che cosa si proponeva di fare?

— Non so.

— Che cosa ti ha detto? Mi interessa ogni sua parola.

Ed a questo punto Ščekn assunse una posizione strana, direi innaturale: si accoccolò sulle zampe in tensione, allungò il collo e mi fissò dal basso in alto. Poi, facendo lentamente oscillare la pesante testa a destra e a sinistra, disse, spiccicando chiaramente le parole:

— Ascolta con attenzione, cerca di capire bene, e non dimenticarlo. Il popolo della Terra non si immischia negli affari del popolo dei Testoni. Il popolo dei Testoni non si immischia negli affari del popolo della Terra. Così è sempre stato, così è e così sarà. L’affare Lev Abalkin riguarda il popolo della Terra. È stato deciso. Perciò: non cercare quello che non c’è. Il popolo dei Testoni non darà asilo a Lev Abalkin.

Ma guarda un po’! Mi sfuggì:

— Ha chiesto asilo? Da voi?

— Ho detto solo quello che ho detto: il popolo dei Testoni non darà mai asilo a Lev Abalkin. Niente altro. Hai capito?

— Ho capito. Ma non mi interessa. Ripeto la domanda: che cosa ti ha detto?

— Risponderò. Ma prima ripeti quello che ti ho detto.

— Va bene, ripeto. Il popolo dei Testoni non si immischia nell’affare Abalkin e rifiuta di concedergli asilo. Va bene?

— Va bene. Questa è la cosa principale.

— Ora rispondi alla mia domanda.

— Rispondo. Mi ha chiesto se c’è differenza fra lui e gli altri uomini con cui ho lavorato. Proprio la stessa domanda che mi hai fatto anche tu.

Appena finito di parlare, si girò e scivolò nella boscaglia. Non si sentì frusciare nemmeno un ramo, nemmeno una foglia, e non c’era più. Era sparito.

Che tipo questo Ščekn! «…Gli ho insegnato la nostra lingua e ad utilizzare la linea di approvvigionamento. Non l’ho mai lasciato quando era ammalato di quelle sue strane malattie… Ho sopportato le sue cattive maniere, le sue espressioni brusche, gli ho perdonato cose che non ho mai perdonato a nessuno… Se occorresse, mi batterei per lui, come per un terrestre, come per me stesso. E lui? Non so…» Che tipo questo Ščekn-Itrč!

3 giugno dell’anno 78. Sua Eccellenza è contento

— Molto interessante! — disse Sua Eccellenza, quando finii il mio rapporto. — Hai fatto bene, Mak, ad insistere ad andare in quel serraglio.

— Non capisco, — risposi, cercando di levarmi le lappe spinose dai pantaloni bagnati. — Lei ci vede un senso?

— Sì.

Lo fissai.

— Lei pensa seriamente che Lev Abalkin abbia potuto chiedere asilo?

— No, non lo penso.

— Allora di che cosa si tratta? Oppure è di nuovo polvere negli occhi?

— Forse. Ma il punto non è questo. Non ha importanza cosa si proponesse Lev Abalkin. La reazione dei Testoni, ecco quello che è importante. Comunque, non starti a scervellare. Hai portato informazioni importanti. Grazie. Sono contento. Sii contento anche tu.

Ricominciai a levarmi le lappole. Che dire, indubbiamente era contento. Le pupille verdi brillavano tanto che si vedevano anche nella penombra dello studio. Allo stesso modo avevo guardato anche io, quando giovane, allegro, trafelato, gli avevo riferito che Prešt il Taciturno era stato finalmente preso con le mani nel sacco e stava seduto giù in macchina con il bavaglio davanti alla bocca. Ero stato io a prendere il Taciturno, ma allora non mi ero ancora reso conto di una cosa che era invece chiarissima al Nomade: erano finiti i sabotaggi e i convogli di grano già l’indomani sarebbero partiti alla volta della capitale…

E anche adesso, si rendeva chiaramente conto di qualcosa a cui io non avevo pensato, ma chissà perché non mi sentivo affatto soddisfatto. Non avevo preso nessuno, non c’era nessuno che, con il bavaglio alla bocca, aspettasse di essere interrogato. C’era solo un uomo misterioso, dal destino avverso, che si aggirava sulla Terra, si aggirava, non trovava pace, si aggirava, come avvelenato, e lui stesso avvelenava tutti quelli che incontrava, offendendoli e ferendoli, tradiva e diventava lui stesso vittima di tradimento…

— Ti ricordo ancora una volta, Mak, — disse improvvisamente sottovoce Sua Eccellenza, — che è pericoloso. Ed è tanto più pericoloso, perché lui stesso lo ignora.

— Ma insomma si può sapere chi è? — chiesi. — Un androide matto?

— Gli androidi non possono avere segreti della personalità, — disse Sua Eccellenza. — Non ti distrarre.

Mi infilai le lappole nella tasca della giacca e sedetti impettito.

— Ora puoi andartene a casa, — disse Sua Eccellenza. — Fino alle 19.00 sei libero. Poi, cerca di trovarti nelle vicinanze, entro il perimetro della città, e aspetta la mia chiamata. E probabile che stanotte cerchi di introdursi nel museo. Allora lo prenderemo.

— Va bene, — dissi senza alcun entusiasmo.

Mi fissò come se mi soppesasse.

— Spero che tu sia in forma, — sbottò. — Lo dobbiamo prendere in due ed io sono ormai troppo vecchio per simili esercizi.

4 giugno dell’anno 78. Il Museo delle Civiltà Extraterrestri

All’1.08 il radiobracciale al mio polso squittì, e la voce soffocata di Sua Eccellenza borbottò una specie di scioglilingua: «Mak, il museo, l’entrata principale, svelto…».

Chiusi la cappotta della cabina, perché non ci fosse troppa aria, e accesi il motore, accelerando sul posto. Il bioplano spiccò il volo a candela nel cielo stellato. Tre secondi per frenare. Ventidue secondi per atterrare e orientarmi. La Piazza della Stella era vuota. Davanti all’ingresso principale non c’era nessuno. Strano. Aha. Dalla cabina del trasporto-zero all’angolo del museo appare una lunga figura nera. Scivola fino all’ingresso principale. È Sua Eccellenza.

Il bioplano atterrò silenziosamente davanti all’ingresso principale. Immediatamente sul quadro si accese la lampadina segnaletica, e la voce dolce del robot-ispettore disse con tono di rimprovero: «È vietato atterrare con il bioplano sulla Piazza della Stella…». Abbassai la cappotta e balzai in strada. Sua Eccellenza già si dava da fare davanti alle porte, maneggiando il grimaldello magnetico.

«È vietato atterrare con il bioplano sulla piazza della…» — continuava ad annunciare il robot-ispettore.

— Fallo star zitto… — berciò Sua Eccellenza fra i denti, senza voltarsi.

Chiusi la cappotta. In quello stesso istante l’ingresso principale si spalancò.

— Dietro di me! — ordinò Sua Eccellenza e si tuffò nell’oscurità.

A mia volta mi tuffai sulle sue tracce. Proprio come ai vecchi tempi. Mi faceva strada silenzioso, lungo, allampanato, angoloso, di nuovo leggero e abile, vestito di nero, simile all’ombra di un demone medioevale, e pensai di sfuggita che, probabilmente, nessuno dei nostri odierni sbarbatelli avrebbe mai visto Sua Eccellenza così, e forse l’aveva visto solo il vecchio Elefante, e sì, anch’io, quindici anni prima.

Mi condusse, attraverso una serie di curve complicate e tortuose, da una sala all’altra, da un corridoio all’altro, orientandosi senza sbagliare fra stand e vetrine, fra statue e bozzetti che assomigliavano a meccanismi imperfetti, e fra meccanismi e apparecchi simili a statue mostruose. Non c’era luce. Evidentemente l’illuminazione automatica era stata spenta prima, ma lui non si sbagliò nemmeno una volta e non perse la strada, sebbene sapessi che la sua vista di notte fosse di gran lunga peggiore della mia. Si era ben preparato a questo blitz notturno, la Nostra Eccellenza, e finora se la stava cavando niente male, a parte il respiro. Respirava troppo forte, ma non c’era niente da fare. L’età. Maledetti anni.


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