All’improvviso si fermò e, appena gli fui accanto, mi strinse con la mano la spalla. In un primo momento mi spaventai, pensai che avesse avuto un infarto, poi capii: eravamo giunti alla meta ed ora aspettava semplicemente che gli diminuisse l’affanno.

Mi guardai intorno. Tavoli vuoti. Lungo le pareti, scaffali ricolmi di stranezze extraterrestri; proiettori xenografici accanto alla parete più lontana. Tutto questo l’avevo già visto. Ero già stato qui. Era lo studio di Maja Tojvovna Glumova. Ecco, quello era il suo tavolo, e in quella poltrona si era seduto il giornalista Kammerer…

Sua Eccellenza lasciò la mia spalla, andò verso gli scaffali, si chinò e li passò in rassegna, senza raddrizzarsi. Cercava qualcosa. Con il corpo leggermente all’indietro, prese fra le braccia un oggetto lungo, una specie di travicella piatta dagli angoli arrotondati. Con cura, senza il minimo rumore, posò quell’oggetto sul tavolo, rimase un istante impietrito ad ascoltare, e poi all’improvviso, come un prestigiatore, tirò fuori dalla tasca sul petto una lunga sciarpa colorata con la frangia. Con un movimento abile, la spiegò e la gettò sopra la travicella. Poi si voltò verso di me, si attaccò al mio orecchio e in modo appena percettibile sussurrò:

— Appena tocca la sciarpa, prendilo. Se ci nota prima, prendilo. Monta qui di guardia.

Montai la guardia da un lato della porta. Sua Eccellenza, dall’altro.

All’inizio non sentii niente. Stavo in piedi, con la schiena contro la parete, calcolavo meccanicamente le possibili varianti di sviluppo degli avvenimenti e fissavo la sciarpa distesa sul tavolo. Interessante, in nome di che cosa Lev Abalkin vorrà avvicinarcisi? Se quella travicella gli serve tanto, come farà a sapere che è nascosta sotto la sciarpa? E che cos’è quella travicella? Assomiglia all’astuccio di un intravisore portatile. Oppure di uno strumento musicale. Ma no. È troppo pesante. Non ci capisco niente. È chiaramente un’esca, ma se è un’esca, non è quella giusta…

A questo punto sentii un rumore. Bisogna dire che era un rumore forte: da qualche parte, nelle viscere del museo, stava franando qualcosa di enorme, metallico, che andava in pezzi nella caduta. Mi ricordai all’istante della gigantesca matassa di filo elettrico che, poco tempo prima, con tanta cura le ragazze del museo avevano sistemato con i saldatori molecolari. Guardai Sua Eccellenza. Anche lui era in ascolto e anche lui era perplesso.

Il tintinnio, lo sferragliare, il suono, a poco a poco cessarono, e di nuovo si fece silenzio. Che un Progressore, un professionista, un maestro nel nascondersi facesse irruzione alla cieca in quell’enorme edificio? Improbabile. Certo, poteva essere che la manica gli si fosse impigliata all’unico filo penzolante… No, non era possibile. Ad un Progressore non poteva accadere niente di simile. Oppure qui, sull’innocua Terra, il Progressore aveva fatto già in tempo a rilassarsi… Difficile. Comunque, stiamo a vedere. In ogni caso ora sta immobile su un piede solo e sta ad ascoltare, e rimarrà ad ascoltare cinque minuti buoni…

Lui non ci pensava proprio a stare immobile su un piede solo e ad ascoltare. Si stava avvicinando a noi e il suo movimento era accompagnato da una cacofonia di rumori, diversi e assolutamente fuori luogo per un Progressore. Trascinava i piedi e ciabattava rumorosamente. Urtava contro gli stipiti delle porte e le pareti. Una volta finì contro un mobile e proruppe in una serie di esclamazioni poco chiare, con una prevalenza di sibilanti. E quando sugli schermi dei proiettori caddero deboli riflessi elettrici, i miei dubbi divennero certezza.

— Non è lui, — dissi a Sua Eccellenza, quasi ad alta voce.

Sua Eccellenza annuì. Aveva l’aria dubbiosa e cupa. Ora stava dall’altro lato della porta, con la faccia verso di me, a gambe larghe e con il muso lungo, e si poteva facilmente immaginare che fra un minuto avrebbe preso il falso Progressore per il bavero con entrambe le manie, scuotendolo, gli avrebbe berciato in faccia: «Chi sei e cosa stai facendo qui, piccolo bastardo?».

E mi figuravo il quadro con tanta chiarezza, che all’inizio non mi meravigliai nemmeno, quando con la mano sinistra si sbottonò la giacca nera e con la destra infilò sotto l’ascella il suo “duca” preferito calibro ventisei, come se si liberasse le mani in vista della presa e dello scuotimento.

Ma quando finalmente capii che per tutto questo tempo aveva avuto in mano quel caricatore da otto, strumento di morte sicura, mi sentii gelare. Poteva significare solo una cosa: Sua Eccellenza era pronto ad uccidere Lev Abalkin. Proprio ad uccidere, perché Sua Eccellenza non si portava mai dietro armi solo per spaventare, minacciare o per fare impressione, ma solo per uccidere.

Ero rimasto così colpito che dimenticai ogni altra cosa. Ma, in quel momento, nello studio irruppe una grossa colonna di luce bianca, viva, e dopo aver urtato un’ultima volta contro la porta, comparve il falso Abalkin.

Nel complesso, assomigliava un po’ a Lev Abalkin: forte, robusto, non molto alto, con lunghi capelli neri che gli arrivavano alle spalle. Portava un ampio impermeabile bianco e teneva davanti a sé una torcia elettrica da campeggio, e nell’altra mano qualcosa di mezzo fra una valigetta e una grossa cartella. Entrando si fermò, passò il raggio della torcia sugli scaffali e disse:

— Dunque, dovrebbe essere qui.

Aveva la voce gracchiante e un tono ostentatamente baldanzoso. È il tono con cui si parla quando si ha paura, o ci si sente a disagio, o si prova vergogna, in breve, quando ci si sente fuori posto. «Con un piede nella fossa», come dicono gli abitanti di Hontj.

Allora vidi che in realtà si trattava di una persona anziana, forse addirittura più anziana di Sua Eccellenza. Aveva un lungo naso affilato con la gobbetta, un lungo mento appuntito, guance cascanti e la fronte alta e molto bianca. Nel complesso, assomigliava non tanto a Lev Abalkin, quanto a Sherlock Holmes. Al momento potevo dire solo una cosa con assoluta precisione: non avevo mai visto prima quell’uomo.

Dandosi di sfuggita un’occhiata intorno, si avvicinò al tavolo, mise sulla sciarpa colorata, proprio accanto alla nostra travicella, la sua valigetta, e cominciò ad esaminare gli scaffali, facendosi luce con la torcia, senza fretta e con metodo, ripiano dopo ripiano, sezione dopo sezione. E borbottava continuamente qualcosa fra sé e sé, ma si riuscivano a capire solo parole isolate: «… Beh, questo lo sanno tutti… hmm-hmm-hmm… Un comunissimo ellisio… hmm-hmmhmm… Cianfrusaglie, ancora cianfrusaglie… Forse non è al suo posto… Chissà dove l’hanno cacciato, l’hanno nascosto… hmmhmm-hmm…

Sua Eccellenza seguiva tutte queste manovre con le braccia incrociate dietro la schiena, ed in viso un’espressione molto insolita per lui e che poco gli si addiceva, un’espressione di infinita stanchezza o, forse, di noia, proprio come se avesse davanti qualcosa che lo aveva fiaccato oltre misura; di cui aveva piene le tasche e che nello stesso tempo non lo lasciava in pace; qualcosa a cui si era rassegnato ormai da tempo, e di cui già da tempo aveva rinunciato a liberarsi. Devo confessare che all’inizio ero un po’ meravigliato che rinunciasse a quella che era la sua naturale intenzione: prenderlo per il bavero e dargli una bella scrollata.

Tuttavia ora, guardandolo in faccia, capii: non avrebbe avuto senso. Scrollarlo o non scrollano non sarebbe cambiato nulla, tutto sarebbe andato secondo routine: si sarebbe umiliato, avrebbe borbottato qualche scusa, sarebbe stato a disagio, avrebbe fatto cadere tutti i reperti del museo, e avrebbe rovinato un’operazione pensata e preparata con cura…

Quando il vecchio arrivò alla sezione più lontana, Sua Eccellenza sospirò profondamente, si avvicinò ai tavolo, si sedette sul bordo accanto alla cartella e disse con disprezzo:

— Che cosa sta cercando, Bromberg? I detonatori?

Il vecchio Bromberg emise uno strillo sottile e scartò da una parte, facendo cadere una sedia.


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