— Mi chiamo Saul, — disse lo sconosciuto e per la prima volta sorrise. — Saul Repnin. Sono uno storico. Ventesimo secolo. Ma mi sforzerò di rendermi utile. So cucinare, guidare macchine terrestri, cucire, riparare le scarpe, sparare… — Tacque. — E inoltre, so come tutto questo si faceva nei tempi passati. Conosco anche le lingue: il polacco, lo slovacco, il tedesco, un po’ di francese e di inglese…

— Peccato che non sappia guidare l’astronave, — sospirò Vadim.

— Sì, peccato, — disse Saul. — Ma non fa niente, l’astronave la guiderete voi.

— Non sospirare, Dimka, — disse Anton. — È ora che anche tu veda gli strani paesaggi dei pianeti senza nome. Ballare si può anche sulla Terra. Fa’ vedere quanto vali quando non ci sono ragazze, cascamorto…

— Sospiravo di entusiasmo, — disse di rimando Vadim. — In fin dei conti cosa sono questi Tachorg? Animali ingombranti e noti a tutti…

Saul si informò gentilmente:

— Spero di non avervi forzato troppo la mano, e che il vostro consenso sia libero e volontario.

— Ma infine, — disse Vadim, — Che cos’è la libertà? Una necessità consapevole. E tutte le altre cose non sono che sfumature.

— Passeggero Saul Repnin, — disse Anton. — La partenza è per le dodici in punto. La sua cuccetta è la terza, a meno che non voglia occupare la quarta, la quinta, la sesta o la settima. Venga, le faccio vedere.

Saul si chinò per prendere la cartella e da sotto l’ascella gli scivolò un grosso oggetto nero che cadde pesantemente sull’erba. Anton inarcò le sopracciglia. Vadim guardò e inarcò anche lui le sopracciglia. Era uno skorcer, un pesante revolver disintegratore a canna lunga, che sparava scariche di milioni di volt. Oggetti simili Vadim li aveva visti solo al cinema. In tutto il pianeta non c’era più di un centinaio di esemplari di questa strana arma, e venivano dati solo ai capitani delle astronavi che sbarcavano nei posti più lontani.

— Che sbadato, — borbottò Saul. Raccolse lo skorcer e se lo infilò sotto l’ascella; poi prese la cartella e annunciò: — Sono pronto.

Anton lo fissò per qualche minuto, come se volesse chiedergli qualcosa. Poi disse:

— Andiamo Saul. Tu, Vadim, metti in ordine a casa e porta al vecchio il suo strumento. È nel bagagliaio. Intendo lo strumento, naturalmente!

— Agli ordini, capitano, — disse Vadim e andò in garage.

Difficile essere ottimista, pensava. Ma che cosa è un ottimista? Gli venne in mente che in qualche vecchio vocabolario si diceva che l’ottimista è una persona piena di ottimismo. Sempre lì, un po’ più su si diceva che l’ottimismo è una percezione del mondo vivace e gioiosa, in base alla quale l’uomo crede nel futuro, nel successo. È una buona cosa essere un linguista, tutto torna subito al suo posto. Rimane soltanto da combinare la percezione del mondo vivace e gioiosa con l’arrivo a bordo di un matto pericolosamente armato…

Prese dal bagagliaio il bisturi e i bioelementi e si diresse dallo zio Saša. Il vecchio stava accoccolato accanto al Ramforinch rosso.

— Zio Saša, — disse Vadim. — Ecco il suo nuovo bisturi e…

— Non c’è più bisogno, — disse lo zio Saša. Scivolò fuori da sotto il Ramforinch. — Grazie. Mi hanno regalato questo. — Diede una pacca al Ramforinch, sul fianco lustro. — Pare sia molto resistente, vero?

— Chi gliel’ha regalato?

— Un giovanotto vestito tutto di bianco.

— Ah, ecco, — disse Vadim. — Dunque era sicuro di venire con noi. Oppure aveva intenzione di farsi strada nella navicella a colpi di revolver?

— Cosa? — chiese lo zio Saša.

— Zio Saša, — disse Vadim, — sa che cos’è uno skorcer?

— Skorcer? Sì, certo che lo so. È un dispositivo a microscarica delle macchine tessili automatiche. Per la verità, ora non ce ne sono più, ma mi ricordo che settanta anni fa… Ma perché, quel tizio in bianco è un ex tessitore?

— Forse è anche un tessitore, ma il suo skorcer, zio Saša, non è certo a microscarica.

Vadim tornò pensieroso nel suo cottage. A casa buttò le lenzuola nel condotto per la spazzatura, spense l’attrezzatura automatica domestica e, uscendo sulla veranda, scrisse a matita sulla porta «Partito per le vacanze. Si prega di non entrare». Poi, andò da Anton. Mentre metteva in ordine il cottage di Anton, continuava a riflettere. In fin dei conti non tutto era perduto. Di Tachorg, bisogna ammetterlo, ormai se ne aveva abbastanza. Pandora, per essere sinceri, era più che altro un posto di villeggiatura molto alla moda. C’era solo da meravigliarsi che ce l’avesse fatta a resistere per tre stagioni consecutive. Che vergogna, pensò con improvviso entusiasmo. Eppure c’è Stato un periodo in cui mi pavoneggiavo con una collana di denti di Tachorg al collo e descrivevo Pandora in termini entusiastici. Gettare in faccia a Samson il teschio di un Tachorg, che banalità! Samson merita di più, e Samson sarà immortalato. Un pianeta ignoto è un pianeta ignoto. Sui pianeti ignoti si aggirano belve ignote. Loro, poveracce, non sanno come si chiamano. Ma io lo so già. Là mi procurerò il primo «Samson non bipede a orecchie membranose» della storia oppure, diciamo, un «Samson a dentatura piena e schiena a gobbe»… Lanciare addosso a Samson il cranio di un Samson era una cosa che ancora non era stata fatta.

Quando ritornò nella radura, la navicella era pronta per la partenza. La cuspide non era più in direzione del sole, la brina sull’erba intorno era sparita.

Vadim si sedette sull’orlo del portello, con le gambe penzoloni. Guardò il cottage di Anton con la parete spalancata, le chiome verdi dei pini, le nuvole basse, su cui ora apparivano ora scomparivano degli spazi azzurri. Sì, amico Samson, fratello pentapode, pensava vendicativo. Forse contro qualche leone biblico te la puoi anche cavare, ma contro un linguista strutturale… È buffo, però; non mi sarebbe mai venuto in mente di andare a passare le vacanze su un pianeta ignoto, se non fosse stato per quel tizio in bianco. Che razza di retrogradi siamo, perfino noi linguisti strutturali! Siamo eternamente attirati da pianeti abitati…

Sulla radura apparve l’airedale Trofim. Guardò Vadim con occhi buoni e lacrimosi, sbadigliò, si sedette e cominciò a grattarsi dietro l’orecchio con la zampa posteriore. La vita era bella e varia. Ecco Trofim, pensò Vadim. Vecchio, sciocco, buono, ma — guarda un po’! — può ancora far paura… Ma forse, tutti i lunatici hanno paura dei cani che abbaiano? Vadim si mise a fissare Trofim. Ma perché ho deciso che Saul Repnin è un lunatico oppure com’è che si dice?… Perché una supposizione così complicata? Più semplice pensare che lo storico Saul non sia affatto uno storico, ma soltanto l’emissario di una razza di umanoidi sul nostro pianeta. Come Benny Durov su Tagora… Sarebbe bello: un intero mese di pianeti ignoti e di sconosciuti misteriosi… E come quadra tutto alla perfezione! Da solo non può lasciare la Terra, ha paura dei cani, ma ha bisogno di recarsi su un pianeta ignoto, in modo che mandino li un’astronave a prenderlo, su terreno, per così dire, neutrale. Torna a casa sua e racconta: dunque, così e così, sono brava gente, piena di ottimismo, e allacciano con noi normali rapporti fra umanoidi…

Vadim si riprese e gridò verso il corridoio:

— Anton, sono a bordo!

— Finalmente, — rispose Anton. — Pensavo che avessi disertato.

Da dietro gli alberi, agitando sgraziatamente la coda, apparve lo snello Ramforinch rosso che, ruggendo in modo strano, cominciò a disegnare intorno alla navicella un giro d’onore. Lo zio Saša aprì il portello e agitò qualcosa di bianco. Vadim salutò in risposta.

— Partenza! — avvertì Anton.

La navicella tremò e, saltellando dolcemente — Vadim fece appena in tempo a tirar dentro il piede — cominciò a sollevarsi in cielo.

— Dimka! — gridò Anton. — Chiudi un po’ l’oblò! C’è corrente.

Vadim salutò un’ultima volta lo zio Saša, si alzò e chiuse l’oblò.


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