«Cosa?» Per un attimo Baley fu sinceramente sbalordito.
«Le parti che riguardano Gezabele.»
«Oh, Jessie, mi dispiace di aver ferito i tuoi sentimenti. Sono stato infantile.»
«No, no.» Lei si svincolò dal braccio che le cingeva la vita e con un’aria fredda e altera andò a sedersi a una certa distanza. «Fa bene sapere la verità. Non voglio essere presa in giro solo perché non ho letto certe cose, quindi mi sono documentata su Gezabele. Era una donna perversa, Lije.»
«Quei capitoli sono stati scritti dai suoi nemici. Non conosciamo la sua versione.»
«Uccise tutti i profeti del Signore sui cui riuscì a mettere le mani.»
«Così dicono.» Baley cercò una. striscia di chewing gum in tasca. (In seguito perdette l’abitudine perché Jessie diceva che, con la sua faccia lunga e i tristi occhi scuri, quel continuo masticare lo faceva somigliare a un corvo che non riesce a mandar giù un boccone d’erba, e che non si decide a sputarlo.) Disse: «Se vuoi trovarle qualche giustificazione, posso aiutarti io. Gezabele onorava la religione dei suoi antenati, che in quella terra si praticava da molto prima della venuta degli ebrei. Gli ebrei avevano un dio diverso e per giunta esclusivo. Non si accontentavano di adorarlo da soli, volevano convincere tutti gli altri a farlo.
«Gezabele era una conservatrice, una che si attaccava alle vecchie credenze e avversava le nuove. Dopo tutto, se le nuove avevano un più alto contenuto morale le vecchie erano più soddisfacenti dal punto di vista emotivo. E il fatto che facesse assassinare dei sacerdoti la indica solo come una figlia dei suoi tempi: in quel giorni era il metodo abituale per fare proselitismo. Se leggerai il primo libro dei Re vedrai che Elia (il mio santo protettore, stavolta) fece una gara con ottocentocinquanta profeti di Baal per vedere chi poteva far scendere il fuoco dal cielo. Vinse Elia e prontamente ordinò alla folla di massacrare gli ottocentocinquanta baaliti. Così fecero.»
Jessie si morse un labbro. «E che dire della vigna di Naboth, Lije? Naboth se ne stava tranquillo e non dava fastidio a nessuno, ma rifiutava di vendere la vigna al re. Gezabele convinse un certo numero di persone a dichiarare il falso, facendo accusare Naboth di blasfemia o qualcosa del genere.»
«L’accusa fu che "aveva bestemmiato Dio e il re"» citò Baley.
«Infatti. Lo giustiziarono e poi gli confiscarono le proprietà.»
«Non fu una bella cosa. Al giorno d’oggi, si capisce, Naboth subirebbe un trattamento diverso: se la Città volesse le sue proprietà gli farebbe avere una ingiunzione del tribunale e lo manderebbe via, con la forza se necessario. Dopo, gli farebbe pagare il risarcimento che ritenesse opportuno. Anche le nazioni del medioevo si regolavano così, più o meno, ma re Achab non disponeva di risorse tanto raffinate. Con questo non voglio giustificare Gezabele: la sola scusa che si può trovarle è che il re era rattristato e umiliato dalla situazione che si era venuta a creare, e l’amore per il marito prese nella regina il sopravvento. Il benessere di Naboth, è ovvio, le importava molto meno. Te l’ho detto, è stato un modello di mo…»
Jessie si allontanò ancora di più, rossa in faccia e furiosa. «Penso che sei un uomo orribile e disgustoso!»
Lije la guardò sbalordito. «Ma che t’ho fatto? Che ti prende?»
Lei uscì di casa senza rispondere e passò la sera e metà della notte ai livelli del video subeterico, viaggiando instancabilmente da spettacolo a spettacolo e consumando due mesi di quota-divertimenti (siccome la quota era comune, ci andò di mezzo anche Lije).
Quando tornò nell’appartamento trovò il marito sveglio, ma non gli disse parola.
Più tardi, molto più tardi, Baley si rese conto di aver distrutto una parte dei sogni di sua moglie. Per lei il suo nome aveva un significato misterioso, sinistro, e compensava il passato ultra-rispettabile che da ragazza aveva avuto. L’avvolgeva in un’aura di peccato, di licenza che lei adorava.
Adesso era tutto finito. Non parlò più del suo nome completo né a Lije né agli amici, e per quanto lui ne sapeva nemmeno a se stessa. Diventò Jessie e cominciò a firmarsi così.
Con il passare dei giorni gli rivolse di nuovo la parola, e dopo qualche tempo la vita riprese al ritmo normale; nessuna delle liti che vennero poi ebbe la stessa intensità.
Solo una volta si tornò a sfiorare l’argomento, ma indirettamente. Fu all’ottavo mese di gravidanza. Jessie aveva lasciato il posto di assistente dietologa nella mensa A-23 e avendo tempo libero si divertiva a fare preparativi per la nascita del bambino.
Una sera disse: «Che ne dici di Bentley?».
«Come, cara?» Baley alzò gli occhi da un fascio di pratiche che si era portato a casa. (Con una bocca in più da sfamare, la paga di Jessie sospesa e la sua promozione ai livelli superiori lontana più che mai, fare dello straordinario era indispensabile.)
«Voglio dire, se il bambino è maschio, Bentley è un bel nome, ti pare?»
Baley piegò gli angoli della bocca. «Bentley Baley? Non ti sembrano troppo simili?»
«Non so. Ha un certo fascino, questo è sicuro. E poi il ragazzo può scegliersi un secondo nome quando crescerà.»
«Per me va bene.»
«Sicuro? Voglio dire… Forse desideravi chiamarlo Elijah.»
«Poi dovremmo aggiungerci Junior… No, non credo che sia una buona idea. Se vuole, quando sarà grande chiamerà Elijah suo figlio.»
Allora Jessie disse: «C’è ancora una cosa» e si fermò.
Dopo un silenzio lui alzò gli occhi. «Che cosa?»
Lei non lo guardò in faccia, ma disse con fermezza: «Bentley non è un nome biblico, vero?».
«No» rispose Baley. «Sono sicuro di no.»
«Allora va bene. Non voglio nomi biblici.»
E questa fu l’unica allusione alla vecchia lite. Il tempo passò, e quando Lije Baley arrivò a casa in compagnia di R. Daneel Olivaw era sposato con Jessie da diciotto anni. Suo figlio Bentley (non aveva ancora scelto un secondo nome) ne aveva poco più di sedici.
Baley si fermò davanti alla grande porta su cui era scritto, in lettere vistose: PERSONALE — UOMINI. Più in piccolo era scritto SOTTOSETTORI 1A — 1E. Un’ultima dicitura, piccolissima, avvertiva: "In caso di perdita delle chiavi, comunicare subito col 27 — 101 — 51." Era apposta proprio sopra la serratura.
Un uomo li sfiorò, inserì una linguetta d’alluminio nella serratura ed entrò. Si chiuse la porta alle spalle senza far accomodare Baley. Se l’avesse fatto, Baley si sarebbe sentito gravemente offeso: per lunga abitudine gli uomini fingevano di non notare la presenza degli altri all’interno dei Personali o davanti alla porta. Baley ricordò una delle prime confidenze fattegli da Jessie quando aveva ammesso che nei Personali per donne la situazione era diversa.
Diceva spesso: «Ho incontrato Josephine Greely al Personale e mi ha raccontato…»
Una delle conseguenze negative del loro avanzamento sociale fu che quando ebbero il permesso di usare un piccolo lavandino in camera da letto le amicizie di Jessie ne soffrirono.
Baley disse, senza mascherare del tutto il suo imbarazzo: «Per favore, Daneel, aspetta fuori».
«Hai intenzione di lavarti?» chiese R. Daneel.
Baley rabbrividì e pensò: "Dannato robot! Gli hanno insegnato tutto quello che succede sotto l’acciaio, ma non le buone maniere. Se si rivolge a qualcun altro in questo modo il responsabile sarò io.".
Rispose: «Mi farò una doccia. Più tardi si affolla, quindi perderei tempo. Se me la sbrigo adesso, poi avremo tutta la sera davanti a noi».
La faccia di R. Daneel aveva sempre la stessa espressione. «Fa parte dei costumi locali che io aspetti fuori?»
L’imbarazzo di Baley aumentò. «Perché dovresti entrare? A fare che…?»
«Ah, capisco. Sì, naturalmente. Tuttavia anch’io mi sporco le mani, Elijah, quindi voglio lavarmele.»
Mostrò le mani, la palma in fuori. Erano rosate e morbide, con tutte le linee del caso. Portavano il marchio di una tecnologia superiore, e a quanto Lije poté giudicare erano pulitissime.