Baley disse: «Abbiamo un lavandino in casa, per quello». Non c’era traccia di vanteria nella sua voce: lo snobismo, con un automa, è inutile.
«Grazie per la gentilezza, tuttavia credo di voler usare questo posto. Se devo vivere fra gli uomini della Terra, sarà meglio che adotti le vostre abitudini e i vostri costumi.»
«Allora vieni.»
La pulizia e quasi l’allegria dell’interno contrastavano con i criteri del resto della Città, rigidamente utilitaristici.
Baley, tuttavia, ci era abituato e non ci fece caso.
Disse a Paneel, parlando piano: «Mi ci vorrà mezz’ora circa. Aspettami». Si avviò e poi tornò sui suoi passi: «E non parlare a nessuno, non guardare nessuno. Capito? È una regola importante».
Si affrettò ad allontanarsi per evitare di essere sorpreso a parlare; non ci teneva a dare scandalo, ma nel vestibolo non c’era nessuno; già, per fortuna erano soli nel vestibolo.
Percorse il corridoio, in fretta, sentendosi materialmente sporco, superò le sale comuni e raggiunse i box privati. Erano cinque anni che ne aveva conquistato uno, largo a sufficienza per contenere doccia, una piccola lavanderia e altre necessità. C’era perfino un proiettore che trasmetteva i film più recenti.
«Una seconda casetta» aveva scherzato quando glielo avevano assegnato. Ma ora si chiedeva se fosse possibile riadattarsi all’esistenza spartana delle sale comuni, se il morale di un uomo potesse sopportare la perdita dei privilegi connessi alla qualifica.
Schiacciò il pulsante di azionamento della lavanderia e il quadrante liscio del contatore si illuminò.
Quando Baley tornò con il corpo rinfrescato, la biancheria lavata, una camicia pulita e, in genere, un senso di benessere e conforto, R. Daneel lo aspettava tranquillamente.
«Nessun problema?» chiese Baley quando furono all’esterno e poterono parlare.
«Nessuno, Elijah» disse R. Daneel.
Jessie era sulla porta e aveva un sorriso nervoso. Baley la baciò.
«Jessie» borbottò «questo è il mio nuovo collaboratore, Daneel Olivaw.»
Jessie tese la mano, che R. Daneel prese e lasciò. Lei si volse al marito, poi guardò timidamente l’ospite.
«Vuole sedersi, signor Olivaw? Dovrei parlare a mio marito di qualche faccenda di famiglia. Mi ci vorrà un minuto, spero che non le dispiaccia.»
Mise la mano sulla manica di Baley, che la seguì nell’altra stanza.
Lei disse, in un sussurro: «Non sei ferito, vero? Mi sono preoccupata moltissimo quando ho sentito il notiziario».
«Che notiziario?»
«L’hanno trasmesso circa un’ora fa. Sui disordini al negozio di scarpe. Dicono che due agenti in borghese hanno messo a posto tutto. Sapevo che stavi venendo a casa con un collega, e siccome è successo nel nostro sottosettore, proprio all’ora in cui arrivi, ho pensato che dovevi essere stato tu, ma che forse avevano indorato la pillola ed eri…»
«Per favore, Jessie. Come vedi sto benissimo.»
Jessie si dominò con uno sforzo. Disse, debolmente: «Il tuo collaboratore non è della tua stessa divisione, giusto?».
«Giusto» rispose Baley miseramente. «È… un perfetto estraneo.»
«Come devo trattarlo?»
«Come chiunque altro. È solo il mio collaboratore, tutto qui.»
Lo disse in modo così poco convincente che Jessie strinse gli occhi: «Cosa c’è che non va?».
«Niente. E adesso torniamo in soggiorno, o cominceremo a sembrare strani.»
Lije Baley si vergognava del suo appartamento. Fino a quel momento niente del genere gli era passato per la testa, anzi ne era sempre stato fiero. C’erano tre ampie stanze, e il soggiorno misurava tre metri e mezzo per cinque. Ogni stanza conteneva un armadietto. Uno dei dotti principali di ventilazione passava lì vicino e questo significava un po’ di rumore ogni tanto, ma d’altra parte assicurava perfetto controllo della temperatura e aria ben condizionata. L’appartamento, inoltre, era vicino a entrambi i Personali, il che non era un vantaggio da poco.
Ma ora che quella creatura di altri mondi sedeva nel soggiorno di casa sua, Lije Baley si sentiva in imbarazzo. L’appartamento gli sembrava squallido e inadeguato.
Con allegria appena forzata Jessie disse: «Tu e il signor Olivaw avete già mangiato, Lije?».
«Per la verità» rispose Baley, rapido «Daneel non mangerà con noi. Io invece ho fame.»
Jessie accettò la situazione senza scomporsi. Con le scorte di cibo così scarse e il razionamento così severo, era elementare buona educazione rifiutare l’ospitalità degli altri.
Lei disse: «Spero che non le dispiaccia se mangiamo, signor Olivaw. Di solito Lije, Bentley e io pranziamo alle mense del settore, sa, è molto più conveniente e c’è più scelta; inoltre, detto fra noi, aiuta socialmente. Tuttavia Lije e io abbiamo il permesso di cenare in casa tre volte la settimana, se vogliamo: Lije se la cava bene, al Dipartimento, e ha una buona qualifica. Così ho pensato che se lei volesse unirsi a noi, una di queste sere, potremmo fare una festicciola in privato; oh, non creda che voglia vantarmi dei nostri piccoli privilegi, so bene che è antisociale».
R. Daneel ascoltò educatamente.
Baley fece schioccare le dita, non troppo rumorosamente, e disse: «Jessie, ho fame».
Intervenne Daneel: «Infrangerei la buona creanza, signora Baley, se la chiamassi con il suo nome?».
«No, certo che no.» Jessie estrasse il tavolo dalla parete e collegò lo scaldavivande alla presa che si trovava nel mezzo. «Faccia pure e mi chiami Jessie… Daneel.» Sembrava euforica.
Baley, invece, era furioso. La situazione diventava sempre più seccante. Jessie pensava che R. Daneel fosse un uomo e avrebbe sparso la notizia nel Personale delle donne: era di bell’aspetto, nel suo modo legnoso, e Jessie era compiaciuta della sua deferenza. Questo era evidente.
Baley si domandò che impressione avesse fatto Jessie all’automa; in diciotto anni non era cambiata molto, non, almeno, agli occhi di Lije. Si era appesantita, certo, e la figura aveva perso gran parte del vigore giovanile; c’era qualche ruga agli angoli della bocca e le guance sembravano più pesanti, mentre i capelli — appena un po’ sbiaditi — erano pettinati in una foggia più tradizionale.
Ma tutto questo era assurdo, pensò Baley. Sui Mondi Esterni le donne erano alte, snelle e fiere come gli uomini. I librofilm le mostravano così, e R. Daneel doveva essere abituato a quello standard.
L’automa non sembrava colpito dalla conversazione di Jessie, dal suo aspetto o dal fatto che lo chiamasse per nome. Disse: «È sicura che facciamo bene? A usare quel nome, voglio dire. Jessie sembra un diminutivo, e forse è riservato ai suoi conoscenti più stretti. Se mi dice il nome completo…».
Jessie, che stava aprendo la copertura isolante in cui erano tenute le razioni, piegò la testa sul tavolo come se fosse totalmente assorbita dall’operazione.
«È proprio Jessie» disse, con la gola stretta. «Tutti mi chiamano così. Non c’è altro.»
«Benissimo, Jessie.»
La porta si aprì ed entrò un ragazzo. I suoi occhi individuarono immediatamente R. Daneel.
«Papà?» chiese il ragazzo, incerto.
«Mio figlio Bentley» disse Baley a bassa voce. «Questo è il signor Olivaw, Ben.»
«È il tuo collega, eh pa’? Come sta, signore?» Gli occhi di Ben si illuminarono tutti. «Di’, pa’, che è successo al negozio di scarpe? Il notiziario ha detto…»
«Non metterti a fare domande, Ben» l’interruppe Baley, brusco.
Bentley prese un’espressione afflitta e cercò gli occhi della madre, che gli fece segno di sedere.
Quando si fu sistemato, lei chiese: «Hai fatto quello che ti ho detto, Bentley?». Gli carezzò i capelli, scuri come quelli del padre. Era alto come Lije, ma per il resto era tutto sua madre. Aveva la faccia ovale di Jessie, gli occhi nocciola e il buonumore tipico di lei.
«Certo, ma’» rispose Bentley, sporgendosi un poco verso il piatto doppio da cui già cominciavano a salire i vapori aromatici. «Che mangiamo, ma’? Non zimovitello di nuovo, eh, ma’?»