Lampeggiò un’insegna: "Il visitatore è pregato di indossare i propri vestiti e di porre la mano destra nell’apposita scanalatura della parete".

Baley obbedì e sentì una lieve puntura sul polpastrello del medio. La parete era pulitissima, color latte. Quando ritirò la mano vide una goccia di sangue dove l’avevano punto. Il sangue smise di scorrere mentre lo guardava.

Si pulì il dito e gli diede un pizzicotto: no, non ne usciva più nemmeno una goccia.

Era chiaro, gli analizzavano il sangue. Baley provò una fitta d’ansia: il check-up annuale che gli facevano in Città era più che altro un procedimento di routine, ma non veniva svolto con l’accuratezza e l’efficienza di questi fabbricanti di automi d’altri mondi. E lui non era sicuro di volere un controllo approfonito del suo stato di salute.

L’attesa gli sembrò lunghissima, ma quando l’insegna si accese di nuovo diceva semplicemente: "Il visitatore proceda".

Baley tirò un sospiro di sollievo. Fece qualche passo avanti e passò sotto un’arcata. Due sbarre di metallo si chiusero davanti a lui, mentre nell’aria si accendevano queste parole luminose: "Si intima al visitatore di non procedere oltre".

«Ma che diavolo…» cominciò Baley, dimenticando nella rabbia che si trovava ancora nel Personale.

R. Daneel gli disse all’orecchio: «I sensori hanno individuato una fonte d’energia, immagino. Hai il fulminatore con te, Elijah?».

Baley si girò di scatto, la faccia scarlatta. Prima di riuscire a parlare provò due volte: «Un agente investigativo deve sempre avere il fulminatore con sé, o a portata di mano, sia in servizio che fuori».

Era la prima volta che parlava a qualcuno in un Personale da quando era adulto; la volta precedente risaliva a quando aveva dieci anni ed era in compagnia di zio Boris. Lo zio gli aveva pestato un piede involontariamente e lui si era lamentato, ecco tutto. Ma quando erano arrivati a casa zio Boris l’aveva battuto di santa ragione e gli aveva ricordato che la pubblica decenza non va mai trascurata.

R. Daneel disse: «Non è permesso ai visitatori di entrare armati. È una nostra tradizione, Elijah. Perfino il tuo questore lascia il fulminatore alla porta, quando viene a trovarci».

In altre circostanze Baley avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andato da Spacetown e dal robot. Adesso, però, non vedeva l’ora di attuare il suo piano e così di vendicarsi.

La visita medica che aveva appena subito era una versione sbrigativa di quella che avveniva nel passato; Baley capiva perfettamente i sentimenti che avevano provocato i disordini di tanti anni prima, quando c’era ancora la Barriera.

Nero dalla rabbia, si tolse il cinturone. R. Daneel lo prese e lo piazzò in una nicchia scavata nella parete. Sopra campeggiava una targhetta di metallo.

«Se appoggi il pollice nell’incavo» disse R. Daneel «solo il tuo pollice potrà aprire la nicchia quando torneremo.»

Baley si sentiva più nudo che nella doccia. Superò le sbarre metalliche e finalmente uscì dal Personale.

Si trovavano in un altro corridoio, ma c’era qualcosa di strano. La luce che brillava in alto aveva un aspetto poco familiare. Baley sentì un soffio d’aria sulla guancia e pensò, automaticamente, che doveva essere passato un veicolo.

R. Daneel dovette indovinare il disagio che provava. Disse: «Ti trovi praticamente all’aperto, Elijah. Voglio dire, questa non è aria condizionata».

Baley provò una leggera nausea. Come potevano, gli Spaziali, essere così schizzinosi con i visitatori e poi respirare l’aria sporca dei campi? Si tappò il naso, come se in quel modo potesse difendersi dall’aria aperta.

R. Daneel disse: «Scoprirai, credo, che l’aria non è dannosa alla salute dell’uomo».

«Va bene» disse Baley, debolmente.

Le correnti arrivavano da tutte le parti, e non era piacevole. Non erano violente, ma imprevedibili: era questo che lo disturbava.

Poi venne il peggio. Il corridoio sfociò in un’apertura azzurra e quando si avvicinarono all’imboccatura vennero inondati di luce. Baley aveva già visto il sole, perché una volta, per servizio, era stato in un solarium naturale. Ma là c’era un vetro protettivo che racchiudeva l’orizzonte e l’immagine del sole veniva rifratta in modo da formare un alone diffuso. Qui, tutto era aperto.

Baley guardò il sole automaticamente, poi abbassò gli occhi. Gli bruciavano terribilmente, e lacrimavano.

Uno Spaziale si avvicinò. Baley fu preso momentaneamente in contropiede.

R. Daneel, tuttavia, strinse la mano al nuovo venuto. Lo Spaziale si voltò verso Baley e disse: «Vuole venire con me, signore? Sono il dottor Han Fastolfe».

All’interno delle cupole le cose andavano meglio. Baley strabuzzò gli occhi quando vide l’ampiezza dei locali e il modo in cui lo spazio veniva sprecato. Ma il ronzìo dell’aria condizionata lo tranquillizzò.

Fastolfe sedette e incrociò le lunghe gambe, poi disse: «Credo che lei preferisca il condizionamento all’aria fresca».

Sembrava amichevole e aveva una simpatica ragnatela di rughe sulla fronte. Sotto gli occhi e sul mento la pelle era un po’ appesantita, ma i capelli radi non mostravano traccia di bianco. Le grandi orecchie a sventola gli davano un’aria comica e familiare che tranquillizzò Baley.

Quella mattina, prima di partire, Baley aveva esaminato le foto di Spacetown prese da Enderby. R. Daneel aveva appena combinato l’appuntamento e Baley cercava di abituarsi all’idea che fra poco avrebbe incontrato degli Spaziali in carne e ossa. Era molto diverso dal parlarci via cavo, esperienza che aveva già fatto parecchie volte.

Gli Spaziali che aveva visto in fotografia non erano diversi da quelli rappresentati nei librofilm: alti, rossi di capelli, severi, di bell’aspetto ma freddi. Come R. Daneel Olivaw, insomma.

R. Daneel gli aveva detto i nomi dei personaggi ritratti, e a un certo punto Baley aveva chiesto: «Questo sei tu, vero?». «No, Elijah» aveva risposto R. Daneel «questo è il mio costruttore, il dottor Sarton.»

Parole che non rivelavano la minima traccia di emozione.

«Ti ha fatto a sua immagine?» aveva chiesto Baley, ironico, ma l’automa non aveva risposto e del resto lui non se l’era aspettato. Sui Mondi Esterni, a quanto ne sapeva, la Bibbia aveva una diffusione limitatissima.

E ora Baley si trovava faccia a faccia con Han Fastolfe, che non si discostava per nulla dal cliché degli Spaziali; il terrestre gliene fu grato.

«Vuole accettare del cibo?» chiese Fastolfe.

Indicò il tavolo che divideva lui e R. Daneel dal terrestre, ma sopra non c’era altro che una serie di sferoidi colorati. Baley si sentì preso in contropiede, perché li aveva scambiati per gingilli.

R. Daneel spiegò: «Sono i frutti di una pianta che cresce su Aurora. Ti consiglio di provare questo, si chiama mela ed è ritenuto molto buono».

Fastolfe sorrise. «R. Daneel non può dirlo per esperienza personale, ma ha ragione.»

Baley si portò la mela alla bocca. La superficie era rossa e verde, al tatto era fresca e aveva un odore lieve e piacevole. Si fece forza e diede un morso, ma l’inatteso gusto aspro della polpa gli fece limare i denti.

Masticò il boccone suo malgrado. Gli abitanti della Città mangiavano cibo naturale solo quando il razionamento lo permetteva e lui stesso aveva assaggiato vera carne o pane; tuttavia anche quegli alimenti venivano trattati in modo speciale: erano cotti o essiccati, mescolati tra loro e rinforzati. La frutta, per esempio, era distribuita sotto forma di salse o conserve; ciò che teneva in mano adesso, invece, veniva direttamente dalla terra sporca del pianeta.

Baley pensò: "Spero che l’abbiano lavata, almeno".

Di nuovo si meravigliò delle contraddittorie misure igieniche adottate dagli Spaziali.

Fastolfe disse: «Permetta che mi presenti un po’ meglio. Io sono incaricato di supervisionare le indagini sull’assassinio del dottor Sarton qui a Spacetown; sono l’equivalente locale del questore Enderby. Se posso esserle d’aiuto in qualche modo, sono pronto a farlo. Siamo altrettanto ansiosi di voi di chiudere la questione pacificamente e senza scalpore. Non desideriamo preparare il terreno a nuovi incidenti».


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