Leggero, veloce, a un ritmo due volte più rapido di quello considerato sicuro, cominciò a destreggiarsi fra i nastri. Si piegò in avanti per sostenere l’accelerazione; la strada locale ronzava davanti a loro. Per un attimo sembrò che Baley volesse abbordarla, ma poi cominciò a indietreggiare, indietreggiare, fendendo la folla che si accalcava sui nastri più lenti.

Baley si lasciò trasportare dalla corsia dei venti chilometri l’ora.

«Quanti ne abbiamo addosso, Daneel?»

«Solo uno, Elijah.» Il robot era al suo fianco, ma non sbuffava e non ansimava.

«Dev’essere stato un buon giocatore, ai suoi tempi. Ma non durerà nemmeno lui.»

Pieno di fiducia in se stesso, provò una sensazione che ricordava solo in parte e che risaliva alla sua giovinezza. Consisteva nella partecipazione a un rito che gli altri non conoscevano, nella sensazione puramente fisica del vento sulla faccia e tra i capelli, in un lieve senso di pericolo.

«Questo lo chiamano il tuffo laterale» disse a R. Daneel a bassa voce.

Il suo passo elastico divorava le distanze, ma continuava a muoversi sullo stesso nastro, evitando la folla dei passeggeri con minimo sforzo. Continuò ad avanzare, tenendosi vicino al bordo del nastro, finché il movimento regolare della sua testa tra la folla diventò ipnotico a causa della costante velocità. Era proprio quello che voleva.

Poi, senza fermarsi, si spostò di cinque centimetri sul lato e passò sul nastro vicino. I muscoli gli fecero male e lottò per mantenersi in equilibrio.

Si fece largo tra una folla di pendolari e balzò sulla corsia dei settanta chilometri.

«Come va, Daneel?» domandò.

«È sempre dietro di noi» fu la tranquilla risposta.

Baley strinse le labbra. Non restava che usare le piattaforme mobili: uno scherzo che richiedeva la massima coordinazione, forse più di quella che Baley possedeva.

Si guardò intorno rapidamente. Dove si trovavano? La 22a Strada-B sfrecciò davanti a loro. Baley fece i suoi calcoli rapidamente, poi cominciò a saltare: di nastro in nastro, con velocità e sicurezza, descrivendo una curva che puntava verso la piattaforma della strada locale.

Le facce impersonali di uomini e donne, incattivite dalla noia del viaggio, si accendevano d’indignazione quando Baley e R. Daneel abbordavano un nuovo nastro e si facevano largo tra i corrimano.

«Ehi, attento!» gridò una donna con voce lamentosa, stringendosi il cappello.

«Mi dispiace» disse Baley, senza fiato.

Continuò ad avanzare tra i passeggeri in piedi e si preparò a saltare sul nastro successivo. All’ultimo momento un passeggero gli diede un pugno sulla schiena, infuriato. Baley barcollò e tentò disperatamente di recuperare l’equilibrio.

Evitò un corrimano e raggiunse il nastro, ma l’improvviso cambio di velocità lo costrinse in ginocchio e poi sul fianco. Ebbe l’orribile visione di uomini che si scontravano con lui e cadevano come birilli, di una spaventosa catena d’incidenti su tutto il nastro, una di quelle "frittate d’uomini" che mandano tanta gente all’ospedale.

Ma il braccio di R. Daneel gli passò intorno alla schiena e lo sollevò con più forza di un uomo.

«Grazie» ansimò Baley, e non ci fu tempo per altro.

Continuò lungo i nastri deceleranti seguendo un disegno complicato il cui scopo era di raggiungere la giuntura a "V" della strada celere al punto esatto d’incrocio. Senza perdere il ritmo, Baley accelerò di nuovo e dopo un po’ si trovò davanti alla strada celere, che abbordò.

«Ci segue ancora, Daneel?»

«Io non vedo nessuno, Elijah.»

«Bene. Che campione saresti stato, a "corri sui nastri"…! Oops, adesso! Salta!»

Di nuovo su una strada locale, lungo le strisce deceleranti che conducevano a una porta dall’aspetto grande e ufficiale. Una guardia si alzò in piedi.

Baley mostrò la piastra di riconoscimento: «Ragioni ufficiali».

Entrarono.

«Una centrale energetica» disse Baley, rapidamente. «Questo farà perdere completamente le nostre tracce.»

Era già stato altre volte in una centrale energetica, questa inclusa, ma l’abitudine non attenuava il suo disagio reverenziale. E la sensazione spiacevole era acuita dal pensiero che suo padre, una volta, era stato al vertice di una centrale identica. Cioè, prima che…

Furono avvolti dal gigantesco ronzio dei generatori nascosti nel pozzo della centrale, dal leggero ma inconfondibile odore dell’ozono nell’aria, dalla cupa e silenziosa minaccia delle linee rosse che delimitavano l’area dove nessuno poteva avventurarsi senza tuta protettiva.

Da qualche parte (Baley non sapeva esattamente dove) circa mezzo chilo di materiale fissile veniva consumato ogni giorno. E ogni giorno i prodotti della fissione radioattiva, le cosiddette "ceneri calde", venivano convogliate dalla pressione dell’aria in condotti di piombo che le scaricavano in lontane caverne scavate nell’oceano, a quindici chilometri dalla costa e a quasi ottocento metri sotto il fondo. A volte Baley si domandava che sarebbe successo quando le caverne si fossero riempite.

Disse a R. Daneel, con una certa rudezza: «Stai lontano dalle righe rosse.» Poi rifletté un momento e aggiunse più mite: «Ma suppongo che per te non abbia importanza».

«Si tratta di radioattività?» chiese Daneel.

«Sì.»

«Allora ha importanza. I raggi gamma compromettono il delicato equilibrio del cervello positronico, e i danni si vedrebbero molto prima su di me che su di te.»

«Vuoi dire che potrebbero ucciderti?»

«Voglio dire che dovrebbero mettermi un nuovo cervello positronico, e dato che non ce ne sono due perfettamente uguali, il Daneel con cui ora stai parlando sarebbe morto. In un certo senso, almeno.»

Baley dette un’occhia al robot, dubbioso. «Non lo sapevo… Saliamo questa rampa.»

«Non è un punto che venga reclamizzato. Spacetown vuole convincere la Terra della nostra utilità e resistenza, non delle nostre debolezze.»

«Allora perché me lo dici?»

R. Daneel fissò a viso aperto il compagno umano. «Tu sei il mio collega, Elijah. È bene che tu sappia quali sono i miei difetti e i miei punti deboli.»

Baley si schiarì la gola, ma non trovò niente da aggiungere.

«Da questa parte» disse un attimo dopo. «Ci troviamo a pochi passi dal nostro appartamento.»

Era un appartamento sporco, proletario, composto da una stanza con due letti, un armadio e due sedie pieghevoli. C’era uno schermo subeterico incassato nella parete, ma non si poteva regolare con i comandi manuali e funzionava solo a certe ore (e allora non c’era verso di spegnerlo). Niente lavandino, nemmeno disattivato, niente angolo di cottura e bollitura dell’acqua. In un angolo c’era un piccolo condotto per le immondizie: un oggetto disadorno, brutto e spiacevolmente funzionale.

Baley si strinse nelle spalle. «Questo è quanto. Credo che riusciremo a sopportarlo.»

R. Daneel si diresse al condotto dell’immondizia e con un gesto si aprì la camicia sul petto, che sembrava liscio e, almeno alle apparenze, muscoloso.

«Che fai?» chiese Baley.

«Mi libero del cibo che ho ingerito. Se ce lo lasciassi andrebbe a male e io diventerei oggetto di disgusto.»

R. Daneel piazzò due dita sotto un capezzolo e premette in un determinato modo. Il petto si aprì longitudinalmente. R. Daneel allungò una mano all’interno e da un ricettacolo di metallo luccicante prese un sacchetto sottile e trasparente, in parte ripiegato. Lo aprì sotto gli occhi di Baley, che era prossimo all’orrore.

R. Daneel esitò, poi disse: «Il cibo è perfettamente integro perché io non mastico e non produco saliva. È stato ingerito per aspirazione, quindi è ancora mangiabile».

«Grazie, non ho fame» disse Baley gentilmente. «Liberatene.»

Il sacchetto doveva essere di plastica speciale, decise Baley, perché il cibo non vi si attaccava; uscì facilmente e finì nel tubo di scarico. "Uno spreco di cose buone" pensò l’uomo.


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